la virtù di pazienza
La parola pazienza trae origine dal verbo latino patire, nonché dal verbo greco pathein, sostantivo pathos, dolore corporale e spirituale.
La pazienza è una virtù atta a controllare le reazioni ad avversità o offese, dominando l’ira, la collera e possibili atti violenti o aggressivi verso altri. Essa permette di accettare anche disagi e dolore, difficoltà, molestie, conflitti, e perfino in qualche modo e misura la morte, dominando la dimensione emotiva e mantenendo forza e costanza nell’agire.
Oltre ad essere composta dalla fortezza, questa somma virtù comprende la costanza, la perseveranza, il rispetto, e perfino la tolleranza anche per chi non merita rispetto.
Il paziente poi è anche umile, ed è capace di aspettare, di mettersi in ascolto, di indulgere nei confronti di chi fa più fatica, ma senza spocchia, senza superbia, senza iattanza. In definitiva, chi è paziente è anche molto forte.
Secondo Tommaso d’Aquino, che mutua la dottrina su questa virtù da Aristotele e Gregorio Magno (l’ispiratore di San Benedetto e della sua Santa Regola), la pazienza è una delle virtù più magnanime e longanimi.
Nella dottrina cristiana la pazienza riesce a controllare l’angoscia, la depressione o accidia, l’amarezza provocata da inconvenienti, sfortune, dolori e rafforza la volontà di operare il bene.
Nelle Scritture troviamo riferimenti alla pazienza, come in Matteo 18, 23 e ss., in Paolo, II Corinzi 12, 12; Tito 2, 2; Romani 3, 25 e altre; e in Pietro: … mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità (II Pietro 1, 5 e ss.), e:
… davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro … (II Pietro 3, 8).
Che dire? Abbiamo pazienza? Ce l’abbiamo sempre? Con chiunque?
No, no e no. Facciamo una gran fatica, grande, immensa, perché le cose ci scappano davanti, siamo in-pazienti, spesso scorbutici, spesso incapaci di dominarci. Sembra che la pazienza sia quasi una virtù, o una facoltà (laicamente parlando) inattuale, inadatta alle culture contemporanee, che richiedono il “tempo reale”, il just in time, la velocità: oggi si deve essere sempre all’altezza di un comportamento citius, altius, fortius, sempre più veloce, forte, tendente a salire… dimenticando che noi, poveri bipedi umani, abbiamo bisogno anche di un comportamento più lentius, dulcius, suavius, come insegnava il mio buon amico Alexander Langer, presente in spirito come non mai, pena un definitivo istupidimento cognitivo e morale, e magari qualche coccolone cardiocircolatorio.
Se vogliamo schiattare, siamo sempre più impazienti; se invece vogliamo leggere un libro in pace seduti su un argine di bosco, sulla riva di uno dei nostri bellissimi fiumi, rallentiamo e ascoltiamo pazientemente anche il frullo i un passero.
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