Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Darwin et cetera

Non c’è contrasto razionale tra evoluzionismo e fede.

 

49 cellule “Har” sembra siano le cosiddette “aree accelerate” del Dna dell’uomo, cioè quelle che fanno di questo grande primate un uomo. Ricercatori statunitensi, belgi e francesi hanno potuto stabilire che i 18 costituenti elementari del Dna (nucleotidi) sui 118 che lo compongono, hanno modificato in profondità le combinazioni da quando si è verificata la divisione degli ominidi dai primati, circa sei milioni di anni fa. La considerazione che fa contrasto con la scoperta è che negli oltre 300 milioni di anni precedenti (cioè, dalla “comparsa” dei primati) solo due nucleotidi si erano parzialmente modificati.

È successo, dunque, che dalla scissione fra ominidi e “restanti” primati (gorilla, scimpanzè, oranghi, etc.), lo sviluppo genetico evolutivo del “fascio antropologico” che ha portato all’homo sapiens ha avuto una straordinaria accelerazione, diversificazione e complessificazione. Dice David Haussler del Howard Hughes Medical Institute: “Ciò che abbiamo messo in evidenza potrebbe spiegare il passo fondamentale che ha portato allo sviluppo del cervello umano, anche se dobbiamo trovare la prova definitiva di ciò che fa davvero la differenza con gli scimpanzè. Questo studio è stato davvero una ricerca innovativa perché ha utilizzato l’evoluzione per studiare regioni del nostro genoma che fino ad oggi erano rimaste inesplorate” (cf. L. Bignami, La Repubblica, 17 agosto 2007). La questione è dunque se la differenza tra uomo e gli altri primati sia imputabile ad una sola area del genoma. Su ciò risponde Claude Bernard, dell’università di Bruxelles, uno tra i ricercatori coinvolti: “No, non può essere una sola area genetica, bensì una serie di mutamenti in aree diverse”. Fino ad ora la ricerca si è soffermata sulla regione chiamata Har1, comprendente due geni, uno dei quali Har1F sarebbe molto attivo nella formazione delle cellule nervose che si sviluppano nelle prime settimane di vita del feto umano, le quali sono preposte alla strutturazione degli strati della corteccia cerebrale.

Meraviglioso. Siamo sempre al dunque circa la domanda sull’origine dell’uomo, come animale razionale (coscienza riflessa e riflettente) e provvisto di senso etico, domanda che interpella un considerevole plesso interdisciplinare filosofico, biologico ed antropologico. La questione dell’evoluzione non data dalle ricerche di Darwin e Lamarck. È stata posta ben prima, sia pure indirettamente, proprio con il superamento della lettura letteralista della sacra Scrittura. Sappiamo che nell’area europea si iniziò a studiare in modo scientifico la Bibbia, e in particolare il libro di Genesi, solo da circa la metà del XVIII secolo in area franco-tedesca (Simon, Reimarus, Lessing, etc.), utilizzando gli strumenti analitici dell’indagine storico-critica. Ma, antesignani tra tutti, furono gli esegeti alessandrini, a partire da Clemente, e soprattutto da Origene (e Didimo il cieco suo discepolo), per continuare con Girolamo e Agostino, che scelsero di interpretare la Scrittura utilizzando i modelli dell’esegesi ellenistica classica dell’allegoria (la Scrittura è Parola ispirata all’autore umano dallo Spirito Santo, ma si esprime per metafore e altre figure narratologiche, volendo Dio stesso che l’uomo giunga alla Verità con le proprie forze) e della tipologia (rapporto figurato tra protagonisti ed eventi del Primo Testamento, come Adamo, Abramo, Davide, il diluvio universale, le guerre, le carestie, la malattia e la morte, etc., e personaggi e storie del Nuovo Testamento, come Gesù di Nazareth, Maria sua madre, gli apostoli, il battesimo di Gesù, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, i “segni” o miracoli, etc.). L’ermeneutica biblica, dunque, fondata sulla lezione dei grandi Padri occidentali (Ireneo, Agostino, etc.) e orientali (Origene, i Cappadoci, il Crisostomo, etc.), non ha mai temuto di non ritenere che la “lettera” del testo sacro intendesse un senso e un significato immediatamente evidente, appunto, alla lettera. L’interpretazione spirituale, secondo questi esegeti, doveva essere il fine dei perfecti, cioè dei cristiani che volevano veramente, di tutto cuore, penetrare la Parola. Poi la storia ci ha mostrato che le cose sono andata anche diversamente, con il caso Galileo sopra tutti. Papa Giovanni Paolo II ha ufficialmente chiuso una triste vicenda nella quale la Chiesa cattolica non ha brillato.

Ma la questione, che nell’’800 era posta come contrasto tra i cosiddetti “fissisti” creazionisti e gli evoluzionisti darwiniani, sotto un certo profilo rimane aperta al dibattito. Si tratta solo di porlo sul piano epistemologicamente più corretto. Non vi è infatti alcun contrasto fra l’evoluzionismo (più o meno darwiniano) e una fede in Dio, poiché nulla e nessuno vieta che le due “credenze” siano contemperabili, essendo poste su piani cognitivi ed intellettuali differenti. La credenza nel dato scientifico è incontrovertibile fino a che la scienza stessa con il suo metodo deduttivo-induttivo non lo metta in questione. La credenza in Dio è atto intellettuale volontario (favorito dalla Grazia), che non preclude alcunché alla ricerca dell’intelletto umano. La creazione come Atto divino non è assolutamente in contrasto con l’evoluzione, essendo plausibile anche come atto intellettivo-volontario (si fa per dire, usando il linguaggio umano) continuo nella creazione stessa. Si tratta del famoso detto scolastico del “sostegno nell’essere” di tutte le creature. Spesso nella Scrittura il testo è enigmatico e contorto, come sanno bene i biblisti cristiani, gli esegeti giudaico-talmudici e i dottori musulmani, poiché anche la vita e l’uomo stesso sono complessi, essendo creature. La molteplicità e l’evoluzione, il divenire e la storia sono tipici di ciò che è imperfetto, mentre ciò che è perfetto e perfettamente (totus et totaliter) auto-nomo non può essere che Dio. Ma questa è questione di fede (e anche di ratio).

 

 

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