La buona Morte
Un tempo la buona morte era la morte “in grazia di Dio”, ma, di questi tempi, l’accento é posto sull’insopportabilità della sofferenza dei malati terminali, piuttosto che sulla dimensione spirituale ultraterrena. Eppure le cronache di tutti i tempi narrano del dolore e dei patimenti che quasi sempre hanno accompagnato l’uomo nella sua dipartita, fosse per motivi di vecchiaia, che per malattia o ferite. Gli antibiotici hanno un centinaio d’anni, un tempo si usavano oli come l’aloe per disinfettare quanto possibile, e si moriva facilmente per setticemia, tetano o altre infezioni, anche a seguito di piccole vulnerazioni. Nei tempi antecedenti alla scienza contemporanea le tecniche anestetiche o anche solo il lenimento del dolore fisico erano affidati a droghe naturali e talora all’alcool (pensiamo alla chirurgia di guerra). Neppure Huizinga, con la sua straordinaria capacità di illuminare gli anfratti della vita di quei secoli passati, riesce a farci capire fino a che punto l’uomo ha dovuto soffrire.
Fino a cinquant’anni fa la vita media degli italiani oscillava sui sessant’anni (anche meno nei maschi e in chi aveva fatto lavori usuranti), oggi si è allungata di vent’anni. In molte parti del mondo la situazione é oggi simile a quella dei secoli passati in Europa: morire a quarant’anni in Somalia, per mancanza di igiene e malnutrizione é non solo possibile, ma comune (ne sapeva qualcosa quella grande anima di Annalena Tonelli). Sempre di più la stampa riporta notizie di casi, che in qualche modo pongono il problema della sofferenza nei pressi della morte. Nel mondo vi sono già legislazioni che prevedono forme di ausilio tecnico – farmacologico al morire, anche eutanasiche, senz’altro con i dovuti filtri medico – scientifici ed etici. Certo, anche etici, perché l’etica, come “scienza di ciò che é bene e giusto fare e viceversa“, non é univoca, a questo mondo.
Vi sono varie linee di pensiero. Non é facile affrontare questo argomento. Se si dovesse invocare la dottrina creazionista classica del nostro cristianesimo, che permea fin dai primordi la cultura europea, dovremmo dire che non é comunque consentito all’uomo intervenire su una dimensione che non gli appartiene, ma che gli viene data, quella della vita. Analogamente alla proibizione della soppressione di ogni vita umana, che va dall’aborto procurato diretto (cioè non causato indirettamente, come ad esempio, per l’asportazione di un utero canceroso in una donna incinta), all’omicidio volontario e alla pena di morte, essa concerne anche l’eutanasia. Qui si tratta di intendersi. Il confine, spesso labile (e in parte anche opinabile), fra ciò che può costituire un ragionevole, ponderato e proporzionato intervento della scienza e delle terapie mediche, deve essere ispirato al principio di umanità che connota la stessa valutazione di valore della vita umana. Detto questo, però, siamo daccapo. Forse la strada più ragionevole e rispettosa da percorrere é quella che tende innanzitutto ad evitare l’accanimento terapeutico e sperimentativo, e a considerare con attenzione le cure “palliative”, che costituiscono un ausilio fondamentale nelle situazioni più estreme. Accanto a questi aspetti di ordine tecnicale, bisogna considerare le dimensioni psicologiche e relazionali con il malato, su cui molto si é scritto e già molto si fa, ma ancora di più, forse, necessita un pensiero che aiuti a dare un significato di valore alla morte stessa.
Può sembrare paradossale accostare il concetto di “valore” alla morte, se la morte é l’annichilamento per eccellenza, almeno dei corpi, se la morte é la tra/sformazione e quindi la de/formazione definitiva di ciò che prima era vivente e cosciente. Eppure, forse, la più forte delle ragioni che può tentare di illuminare, se pur flebilmente, prima l’insensatezza del dolore e poi l’absurdum della morte, specie se immatura come nei giovani, é il “dare un valore” alla morte.
E ciò può valere in ogni caso, sia da una prospettiva di fede, poiché permette uno sguardo sul “dopo”, sia da una prospettiva agnostica o atea, perché aiuta a considerare l’unicità della presenza a questo mondo del morente. Chiunque esso sia, anche se non lascia ai posteri la dottrina della gravitazione universale o il Partenone. La morte di un uomo é un valore, perché un valore unico é stato il suo “essere a questo mondo”, per lui stesso e per chi l’ha conosciuto e amato.
Prima della nascita nessuno è, dopo la morte si può credere (o “sapere”, come diceva Jung) che la parte immortale del nostro essere esca dal tempo creato ed entri nell’eternità, oppure si può pensare che essa ha comunque “animato” un essere cosciente, lo ha fatto ridere, piangere, amare, costruire un pezzo di questo mondo. Non é poco: la morte é comunque un transito verso l’ignoto o verso la speranza.
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