The Lord of the Rings
(In questa piena estate dei densi climi, dei grandi mattini, dell’albe senza rumore, della perenne ricerca del senso, stagione la meno dolente… a modo di V. Cardarelli, propongo al lettore una storia…)
Da Isildur dei tempi antichi a Minas Tirith. Dove Aragorn, il re di Gondor deve tornare. La fiaba di Tolkien si dipana tra prati ridenti e gole minacciose, tra grotte paurose e paludi mefitiche. La Nuova Zelanda è la location, ma se il regista Jackson avesse visto la Carnia, forse sarebbe venuto qui. Ogni luogo rappresenta stati d’animo e condizioni della psiche. Gli uomini si alleano agli elfi per combattere il grande male di Sauron, ma essi stessi hanno conosciuto nei tempi antichi il male, e conoscono il male di oggi. Come gli uomini, che siamo noi. Gli orchi, servitori di Saruman, antico sodale del grande Gandalf, sono schiavi condannati alla pena della brutalità instupidita. La minaccia di Sauron si fa incombente e chi possiede l’ultimo degli anelli forgiati a suo tempo nel fuoco del Monte Fato, rischia continuamente di esserne attratto fino alla perdizione. Non vi è nulla di esplicitamente legato ai mitologemi dei testi biblici nella saga, eppure si registrano echi lontani, quando la simbologia si fa più nitida e pressante sul contrasto perenne fra bene e male. Si intravede qua e là un qualche rischio manicheo, ma questo viene poi scongiurato. Boromir (Sean Bean), il valoroso principe di Gondor, viene attratto dal potere dell’anello, ma poi si comporta da valoroso e cade al termine di un’epica battaglia con gli orchi Uruk-ai, e viene mandato verso la luce di Valinor, su una zattera di sepoltura, giù per il grande fiume. La tentazione contenuta nell’anello percorre tutta la narrazione, così come la tentazione del serpente antico è presente nella Bibbia fin dal capitolo terzo di Genesi. Qualcuno sostiene che il lavoro dell’illustre linguista britannico sia permeato di una sottile filigrana di new age o di superomismo fascistoide. Penso di no. Si tratta invece di una simbologia che travalica ogni lettura legata a schemi socio-culturali o politici attuali. Tolkien usa la dimensione del tempo collegato al racconto, e del racconto consegnato a un tempo fantastico, indecidibile e indicibile, in qualche misura evocante le antiche saghe del nord o del mondo nibelungico, ma anche da esse separato. Prevale piuttosto il senso del mysterium tremendum et fascinans che, secondo Rudolf Otto, avvolge Das Heilige (Il Sacro), che è una “manifestazione assoluta dell’essere” (A. Olmi O.P.). Tutto ciò che è grande e incombente, il mare, le grandi montagne, operano un doppio e contrario effetto di attrazione e di repulsione. Quando Gandalf il Grigio soccombe, “tirato giù” nell’abisso di Khazad-dûm da un colpo di coda del Balrog, un demone antico, risvegliato dal suo sonno pauroso, per salvare la Compagnia dell’Anello che fugge dentro gli antri delle miniere di Moria, tutto sembra perduto. Ma Gandalf ritorna su un cavallo bianco (apocalittico? Cf. Apocalisse di Giovanni al cap. XIX), Ombromanto, e la sua capigliatura è completamente bianca. Risuscitato? Echi del mistero pasquale cristiano? E la resurrezione è attiva o passiva, cioè, vi è una forza che l’ha resuscitato, o lui ha usato una forza che intrinsecamente gli appartiene? E che dire di Arwen, che rinunzia all’immortalità delle creature elfiche per amore di Aragorn? In mezzo a questo fragore di battaglie, e al sibilo dei cavalieri neri, però, emerge un personaggio piccolo, minuscolo, uno hobbit dei boschi, Frodo Baggins, che si fa accompagnare da un suo amico-servitore, Sam. È con Sam che Frodo parte con l’anello per la sua missione sovrumana, dopo avere accettato l’incarico dal consesso di elfi ed umani riuniti da Gandalf nella residenza di Lorien. Frodo è il vero protagonista del racconto, più del valoroso Aragorn (Viggo Mortensen) e dell’agilissimo Legolas (Orlando Bloom), più del sapientissimo Gandalf (Jan McLellan). Kate Blanchett-Galadriel è una regina degli elfi bellissima, un po’ Atena e un po’ Artemide, notturna e lunare, ma non del tutto in grado di evitare la tentazione dell’anello. Questi nomi in elfico, poi, Galadri-el ad esempio, evidente prestito ebraico con il suffisso in “el”, che indica il semantema del divino. Le cavalcate dei cavalieri di Rohan hanno l’impeto irresistibile della leggenda, anche quando tutto finisce con la morte gloriosa del loro re, Theòden, che soccombe sotto il suo cavallo, ma invita a tenere duro, perché il grande male deve essere sconfitto. Con l’aiuto decisivo degli Ent, alberi che appartengono non solo ai viventi, ma si collocano in un punto di passaggio con la vita cosciente. Gli Ent borbottano, parlano, promettono, attaccano, vincono le schiere degli orchi, spazzandole via con furia devastatrice. Creature strane (il nano Gimli con la sua scure terribile), brutte, valorose, buone e cattive, talora nel contempo, si accompagnano agli uomini, quasi a dire che tutto ciò che è a questo mondo ha dignità d’essere e merita rispetto.
Ne sono rimasto intrigato per via di mia figlia, che è diventata una tolkieniologa di tutto rispetto. Lei si è messa di buzzo ad approfondire la conoscenza guardando i dvd della trilogia in inglese, ed esplorando il backstage di Peter Jackson, con grande pazienza. E quando mi parla del Gollum con pietà partecipata, considerando la compresenza del male e del bene in questo essere deforme e infelice, così come in ognuno di noi, ne sono lieto.
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