L’ultimo suono del corno
La boscaglia è fitta e il suono del corno è attutito dal vento che cambia continuamente direzione. Il vento porta gli odori della macchia, così come la luce, più cristallina dopo che è spiovuto, porta i colori del bosco e del prato, dei coltivi inframezzati alla dolina. Animali bradi.
I cacciatori si chiamano alla voce, i cani schiamazzano ruzzando nella macchia. Borbottii in sloveno e triestìn del Carso.
Ora sono sulle orme di ungulati, ora di volatili. Joze ricorda ancora quando da giovane seguiva le tracce degli urogalli verso il Triglav o in alta Val Trenta. Talora lo accompagnava il sussurro del Rio Coritenza nella profonda forra smeraldina.
E così raccontano Ladi e Edward, il più massiccio e affabulatore. Sul tavolo il vino e la pancetta dell’altopiano. Cicale che salutano l’occhieggiare del sole tra le nuvole. È rinfrescato e si sta bene sotto la pergola.
Il verde ondulato che porta ad Aidussina e a Tarnova accompagna il viandante verso foreste di latifoglie miste a conifere. A volte i cacciatori si spingono fino alle sorgenti del Vipacco, e oltre. Raccontano di storie di caccia d’inverno, quando la neve avvolge i boschi e le radure, attutendo i suoni in un biancore attonito.
Ogni tanto un cacciatore muore e allora tutti i compagni si mobilitano, per il funerale, che è religioso ma anche sacrale, della sacralità amicale ed esclusiva della caccia.
L’uomo è stato cacciatore fin dai primordi, e lo è ancora, evocato da ancestrali richiami.
Alla Messa partecipa il Coro Sloveno dei Cacciatori, il “Lovski pevski sbor doberdob”. Unico in Italia, eredità mitteleuropea. In divisa. Sul cappello portano un pezzo di ramo di abete sul lato destro quando sono in caccia, ma sul lato sinistro quando muore un compagno.
Il primo canto è sul finire della cerimonia religiosa, ancora in chiesa.
Il secondo canto accompagna la bara dal catafalco alla sepoltura. E le voci virili si alzano.
Il terzo canto viene intonato quando la bara viene tumulata al suolo, terra bruna e silenzio. Allora inizia lontano a suonare il corno da caccia: prima indistinto, poi sempre più nitido il suono arriva agli astanti, e da lontano si sentono le salve di spari, che si diradano, a mano a mano che il canto finisce e il suono del corno pare allontanarsi. I cacciatori, alla fine, gettano i pezzi di abete che hanno sul cappello nella buca, come pezzi delle loro anime che accompagnano il defunto nel lungo viaggio verso l’aldilà.
Edward Kemperle mi dice che è come un diradarsi dei suoni, che accompagnano l’anima del cacciatore verso terreni di caccia più propizi. È il saluto al cacciatore, il “Lovski zalni posdrau”. “Tu non sei andato via,/ sei rimasto sempre fra di noi,/ ogni volta che andiamo nel bosco a cacciare/ sei sempre con noi.// Ti auguriamo di cacciare ancora/ come quando eri con noi./”
Questo è a un dipresso il testo della canzone ultima, quella che si confonde con il suono del corno e con gli spari sempre più lontani.
Non è il silenzio che segue la cruenta battaglia, non vi è gracchiare di corvi. Solo una nuvola compare verso settentrione.
Poi nella baita dei cacciatori si svolge il “Loski ropot”, il battito delle dita, accompagnato dalle libagioni con il vino Vitozka o Teràn, in onore del defunto, e in auspicio di amicizia tra i viventi.
A Stanjel, San Daniele del Carso, arroccata sul colle, il Teràn è eccellente da Marja e Dravko.
L’amicizia si rinsalda nella condivisione e nel discorso, nell’ironia e nelle manifestazione di ritroso affetto. La piccola cagna, Soça, Ladi l’ha chiamata Isonzo, si intorcola tra le gambe degli umani. Beatriz l’ha subito amata e ne piange il distacco.
Il viandante osserva e ascolta nella sospensione del tempo. Lo spazio si amplia e si dispone per il racconto. Vi è il tempo presente che pulsa e vibra di risonanze arcane. Non esiste altro che il nunc (ma non nel senso di “Life is now”) che prende le mosse dalla narrazione e di questa si nutre indefinitamente, proiettando chi ascolta nel futuro del racconto che sarà, questo presente, e vivo di sonorità prestate in quel pomeriggio di luglio, nel cortile di Rebulla, a Sales, Sgonico, Carso. Pietra e sole. Il mare nascosto dalla macchia respira in fondo.
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