Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Del Dolore

V. von Weizsäcker, Die Schmerzen, in «Die Kreatur», n. 3, Berlino 1926 – 1927, trad.  Simona Landolfi (Università Roma Tre)

 

«Io ho dolore». Che cos’è? Si può davvero comprendere colui che parla così? Si può comprendere l’avere dolore? L’attualità è di fatto sempre incomprensibile. Si può ricordare, immaginare che succede quando si ha dolore, ma che cosa sia veramente  si sa solo se si ha dolore.  Quando passa mi sento di nuovo un altro: non come se dimenticassi quello che ho sofferto, ma qualcosa di insormontabile adesso mi separa da ciò che realmente è stato finché ho provato dolore. Il ricordo è oscuro, sfocato, al contrario della memoria dell’occhio e dell’orecchio che è chiara e nitida. Si può conservarne l’acquisizione spirituale, ma sul dolore la natura ha dispiegato l’incantesimo che, una volta finito, lo rende fiacco. Il dolore è  effimero, impermanente. Lo si può avere e poi raccontare, ma non lo si può rappresentare in modo evidente, né tantomeno dimostrare, conoscere. È qualcosa solo quando c’è, quando è presente; quando non c’è, è un fantasma, uno spettro, non più una realtà. Giacché in presenza del dolore si diventa diversi, in sua assenza non si riesce quasi più a concepire questo essere diversi. Il dolore è un provocatore, uno stimolatore di realizzazioni, un impetuoso attivatore di motilità. Chi si contorce nel dolore tende ogni muscolo in modo estremo. Ma il dolore può anche paralizzare, provocare un estremo indebolimento, e pure in questo caso è un grande riordinatore, un rivoluzionario. Io non posso dunque conoscere e riconoscere veramente il dolore di un altro. E tuttavia il suo essere privo di forma, pur producendo forme, può trovare conferma in me: può accadere che l’impulso e la spinta a superarlo m’invada e s’impossessi di me. Di fronte a chi è avvolto dal dolore io devo ritrarmi o fare qualcosa: l’attualità del dolore è ostile allo spirito, attira verso le profondità del mondo della vita naturale. Il dolore è senza saggezza, senza pietà, è grave, reale, senza idea, è tanto rozzo  che si riesce difficilmente a spiritualizzarlo. Il dolore vuole dominare e quando domina non si riesce più a pensare, a lavorare, a godere. Scaccia l’abnegazione e l’azione, a meno che non servano alla sua cacciata, vale a dire non siano al suo servizio.

Dunque ancora una volta: non è in alcun modo possibile coglierlo questo privo di forma, privo di spirito, irrazionale, non comprensibile, non conoscibile? Se non concepirlo, si può almeno afferrarlo?

[…] La vita è articolata nella sua capacità di soffrire, è in sé connessa con le giunture di un ordine del dolore.  C’è un dolore della distruzione e un dolore dello sviluppo. L’annientamento di un arto può far soffrire come la sua crescita. Il medico deve conoscere il dolore, esserne esperto,  e deve saper distinguere rettamente i dolori. Qui difatti la sua situazione si fa critica, la sua sollecitudine  verso il dolore va incontro a un dissidio, giacché egli deve lenire il dolore della distruzione lasciando tuttavia persistere il dolore dello sviluppo. Il duplice ordine della struttura del dolore conduce all’ordine duplice  dell’agire medico.

[…] Il dolore è al contempo uno stato e un processo, qualcosa che persiste, ma che spinge anche verso la propria soppressione. Questa spinta persistente, questo avere qualcosa e al contempo respingere qualcosa, questo  dinamico stato di fluttuazione può essere anche analizzato come risultante di due forze, una che congiunge e unifica e l’altra che separa e diversifica. Allora possiamo dire: nel dolore un essere vuole scindersi in un io e in un es e nello stesso tempo vuole preservare la propria unità. Il dolore è dunque senz’altro un fenomeno polare, ed è una costruzione successiva il dire (dal punto di vista della fisiologia e delle scienze naturali) che è la «conseguenza» della separazione, o che l’incisione del tessuto è la «causa» del dolore.

[…] In quanto lotta fluttuante per la disgregazione di un essere vivente, il dolore è dunque origine e costrizione a decidere: o il compimento, che rende eterna questa mia separazione da una parte di me, o il ripristino della mia unità, vale a dire la guarigione. La parte amputata morirà, quella guarita continuerà a vivere. Questa decisione tra separazione e guarigione, cui il dolore costringe, diventa così anche una metafora della decisione tra morte e vita. In questo caso metafora significa che a una parte accade ciò che  in futuro accadrà al tutto: decisione tra morte e vita. Ogni dolore è forse un presentimento della morte, o meglio si potrebbe dire che è una decisione che avvicina alla morte, passando per la morte parziale  di uno dei miei organi.

Si può guardare il dolore «negli occhi», come si guarda negli occhi un nemico o un’amata. In tal caso non si tratterà di una obiettivazione, ma di una battaglia che si concluderà con un’annessione o con un annientamento. Può accadere infatti che il mio dolore abbia la meglio su di me e io ne venga invaso, riempito fino all’orlo, sia totalmente in suo potere, o che diventi invece mio fratello e il compagno con il quale condivido il cammino della vita, che muove e stimola la mia vita, il mio pungolo e il dispensatore di energia, che non voglio lasciare. Una terza possibilità sarà decidere di volere il dolore o di volerlo sopprimere. Seguendo l’istinto, io posso produrlo e mantenerlo, torturandomi, oppure respingerlo e scacciarlo con ogni mezzo. Ma il dolore costringe anche a un’altra decisione essenziale: mostrare  o nascondere. Il dolore fa urlare, ma anche ammutolire, fa delirare o irrigidire, lamentarsi o ritirarsi in se stessi, cercare compagnia e simpatia o solitudine e abbandono. Così all’essere solleciti o al distogliersi del medico corrisponde nel paziente una disposizione a mostrare o nascondere.

[…] Da ogni punto di vista l’avere dolore, come l’essere malati, è dunque sempre un essere indecisi. L’indecisione non consiste solo nel fatto che la natura non ha ancora deciso l’esito del disturbo, e neppure nel fatto che io non abbia ancora deciso tra la forza e la debolezza, ma nelle due cose insieme. In questo essere-insieme risiede il mistero psicologico, che caratterizza pienamente la situazione reale dell’uomo.

 (Ringrazio Simona Landolfi, carissima conduttrice di lineamenti di pensiero e meditazione)

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