Oznèbrida
Dov’è Oznèbrida? Che cosa era stato, un lampo, una parola-suono-sogno-sonno?
Quando Johann riposava in qualche stavolo o ricovero alpino, gli capitava di riflettere sull’intelligenza e sulla capacità dell’uomo a comprendere i fenomeni e gli altri umani. Che cos’è l’intelligenza? E’ un dono dello Spirito, o una facoltà solo materiale e così descrivibile in modo del tutto soddisfacente. La biologia e la psicologia potevano dare solo alcune risposte di tipo strutturale e funzionale, ma non chiarivano neppure lontanamente in quale direzione si dovesse andare per passare dal “come” al “perché” dell’intelligenza stessa (qualcuno diceva che non si doveva porre la domanda del “perché”), così come si configurava nell’economia della struttura dell’uomo e della sua esistenza. Le scienze umane spiegavano sempre meglio il funzionamento e i nessi neuropsichici delle zone di produzione del pensiero, ma non le ragioni per cui il pensiero stesso poteva accedere – aderendovi – anche a dimensioni spirituali, morali e pur tuttavia peculiarmente umane, da lasciare sbalordito l’osservatore senza pregiudizi. L’uomo può scegliere operando nell’agire morale, non solo nell’agire utilitaristico, come fanno gli animali superiori.
E allora Johann si abbandonava all’ascolto delle campane che dalle valli raggiungevano il suo udito attento, e degli uccelli serali, come preludi della notte incombente. Gli piaceva aspettare la notte su in alto, specie quando d’estate si doveva indossare un maglione, perché il freddo della quota pungeva, ed era bello dormire nel silenzio vivo della foresta, che talvolta era rotto da trapestii vicini e dallo stridio gentile della civetta.
Come quella volta che si era trovato nella Stazione Topolò, (citata fra le righe di un inedito, pare, addirittura da Tolkien). Là dove scorrono le acque ruscellanti del confine, e le campane si rincorrono per i fianchi boscati delle basse, antiche montagne, nel nome dell’ultima Avemaria, che non finisce. All’ora di notte, là dove “el cielo no tiene frontera”, si chiedeva, memore di nomi nascosti, absconditi, come nomi segreti di Dio, “Dov’è Oznebrida” con l’annuncio interminabile, festoso scampanio, dell’antivigilia di festa, dies dominica, che va e viene secondo il vento, e cambia, con il suono del torrente nel fondovalle. Esiste Oznèbrida? O è un’intercapedine del sogno-sonno-sogno, che si frappone, che si manifesta, come una festa silenziosa del vento? Ma quel nome che ha, che cos’è? Pare un anagramma o un palindromo, e di che, di un altro anagramma e palindromo? E così all’infinito. O forse, ed è più probabile, si tratta di un etimo locale dei luoghi, di un suono iniziatico prodotto negli anni senza memoria e senza storia scritta. Gli anni nei quali i suoni delle parole si perdono in dimenticate lallazioni primordiali. E prima ancora in versi di stupore o di gioia o di rabbia o di fame. Ma Oznèbrida fa un suono delicato, evoluto come un’invenzione umana recente. Chissà.
Allora gli tornavano alla memoria le “installazioni”, come quella del drago che digrigna i suoi ferri alla valle, o il “perdifiato” di bronzo, buono per parlarsi come uno stilita, che disdegna perfino la vicinanza della terra.
Ma soprattutto l’installazione che non c’era: l’orecchio rivolto al muro, che da sempre ascolta gli echi dei suoni che il muro ha rifratto: voci, pianti, lodi, bestemmie, melodie, imprecazioni, urla di paura e di minaccia, risa, e silenzio. Quello profondo della notte e quello spaurito delle morti. Quello della prima mattina, dell’ora che si chiama livida,grigia nell’incerto apparire dell’alba, e quello del perdersi lento del giorno, nei crepuscoli distesi dell’estate.
O di come lui stesso, Johann, trovò scritto in un foglio relicto, “…in questo posto dove il grande cielo lo tocchi con le dita della mano, se solo sai stare in punta di piedi, così le nuvole possono sfiorarti i capelli … Dove nei boschi lussureggianti e rigogliosi e profumati di ciclamino e di more e di terra impregnata, se ci credi, puoi incontrare gnomi, folletti e hobbits, e io li ho davvero trovati. E se sei rimasto un po’ bambino dentro e ti fai un poco più piccolo fuori, riesci anche ad ascoltare le loro voci, e se gli stai abbastanza simpatico può essere che ti regalino una chiocciolina vuota che ha l’odore selvatico della boscaglia. In questo luogo dove non vuoi mai conoscere l’ora, e puoi aspettare il buio delle stelle e della luna per trovare la notte, e la luce del primo sole per il giorno. Qui dove gli umani hanno costruito l’aeroporto che non c’è. Proprio di fronte, là sull’altro crinale, se ti giri le vedi da qui … le luci rosse che segnalano aerei che non scendono e altri che non decollano: e chi potrebbe mai fermarsi qui, e se un giorno, per caso, qualcuno qui c’è arrivato, perché mai dovrebbe ripartire?” … da questo posto … dove non sanno spiegarti dov’è il sentiero che sale al Monte Kolovràt, ma cercano con cura le parole per raccontarti le loro storie antiche di soldati, di tedeschi e dei partigiani dei turchi e dei morti. Che non si sa bene perché sono morti, erano solo personaggi di un’altra storia.
Un giorno qualsiasi che non è domenica. Ieri è piovuto e anche stanotte, ma non è stato il temporale rumoroso. Anche la pioggia qui è silenziosa e fitta e delicata. La senti penetrare nell’erba zuppa e negli strati morbidi e soffici di foglie e altre foglie cadute lo scorso autunno e l’altro ancora, quasi una coltre, e poi passa nella terra scura e odorosa e giù a formare ruscelli e rigagnoli, le cascatelle, fino al torrente che ieri scorreva rabbioso, faticando per trasportare al fiume grande tutta l’acqua. Invece oggi “… scivola sui suoi passi, leviga dolcemente le pietre, lucida i sassi, liscia i rami sulle sponde e i fiori e le tue mani...”.
L’altro foglio relicto era illeggibile, ma Johann lo piegò delicatamente e lo ripose, come fosse un pensiero segreto, indicibile. Come il viaggio che lo teneva sospeso tra il cielo e una strada senza nome.
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