Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il Divino come Incondizionato. L’Umano come Imprevedibile e Irrevocabile

 L’incondizionato è il Divino, sia come lo concepiscono personalisticamente i cristiani, gli ebrei e i musulmani, sia come lo intendono panteisticamente gli hindu e in parte i buddisti. Circa l’incondizionato si può dire che la sua inattingibilità dalle passioni, dalla sofferenza e dal dolore tipicamente umani, l’atrèptos [1] del Concilio di Calcedonia,[2] lo costituisce come un Altro nell’Altrove, in una dimensione che è assolutamente al di fuori della portata di una concettualizzazione mentale esaustiva. I tentativi di raggiungere il Divino, attuati da filosofi e teologi di tutte le confessioni sono rimasti ampiamente “al di qua”: la via cosmologico – razionale di un san Tommaso o intellettuale – spirituale di un sant’Anselmo, circa un Dio che si evince dalle opere,[3] o si intuisce con un atto di pensiero, quasi come “nòesis noèseos”, il “pensiero di pensiero” di Aristotele, lasciano la maggior parte delle persone orfane di una soluzione soddisfacente. Forse i mistici renani del ‘300, come un Meister Eckart, o le nostre nonne, hanno attinto un qualcosa di più attraverso l’abbandonarsi alla fede, come richiesta di grazia.

Luigi Pareyson, uno dei maggiori filosofi italiani del ‘900, giustappone invece, in ambito umano, i concetti di imprevedibile e  di irrevocabile.

All’uomo tocca l’imprevedibile, nel senso che ciò che gli succede non è del tutto controllabile, poiché causato anche da eventi che sorgono al di fuori della sua volontà di individuo. E’ talora vittima del “caso”, pur sapendo che il caso, in sé, non esiste, essendo formalmente costituito dall’intrecciarsi di due o più linee di causalità, le quali sarebbero visibili da una meta-posizione, come si possono intuire dall’elicottero i prodromi di uno scontro tra auto ad un incrocio stradale. Imprevedibile è negazione-del-prevedibile, a causa del prefisso “in”, e dunque un qualcosa che acceca l’uomo, ne condiziona i passi e le scelte, causandogli ansia e incertezza. L’angst, l’angoscia di Kierkegaard forse altro non è che questa paura indefinita dell’indefinito. L’uomo non teme ciò che conosce, anche se si tratta di un pericolo tremendo, l’uomo teme ciò che non conosce, paventando che la sfida dell’imprevedibile ignoto sia superiore alle proprie forze. Ciò nonostante, talvolta, l’uomo, come un ulisside perenne, sfida l’ignoto stesso, non temendo di trovarsi come l’arcaico modello, alle prese con una burrasca insuperabile[4] Entrano qui in gioco due tendenze, l’autotrascendenza e la superbia: la prima come infrenabile aspirazione all’autosuperamento, all’esplorazione del proprio limite, la seconda come atto di primazia assoluta, incondizionata (dunque incongruamente divino). La prima sappiamo che è ammessa e approvata dalle grandi morali laiche e religiose, la seconda sappiamo che è condannata come vizio capitale, anzi, secondo san Gregorio Magno, come fomite principale di tutti i vizi.

L’irrevocabile (anche qui vi è un “in(r)” che rende contrario il concetto) è ciò che non può essere ri-mediato. Cioè non può essere riportato-in-mezzo al guado della vita per cambiare qualcosa del già accaduto, come la palla di football dopo un goal, la quale può consentire alla squadra soccombente di pareggiare. Ma, qualcuno può dire, vi è il perdono, che può modificare la situazione, riportare la pace dopo un’offesa, vi è la struttura giuridica colpa-pena, valida sia in campo civile sia in quello morale-religioso. Ma non basta. Tutti avvertiamo che negli atti umani resta qualcosa di irrevocabile, e qui abbiamo una delle prove della dimensione metafisica dell’essere. Ciò che è stato, magari un’offesa, un reato, un delitto della più varia gravità, resta per sempre, come una cicatrice. Neppure Dio può controvertire il tempo nel quale l’atto è stato commesso. Alla conoscenza di Dio è da sempre presente, come futuribile, l’atto che da noi sarà commesso, ma Egli non interviene, perché così facendo lederebbe la nostra libertà. Gli atti umani sono dunque irrevocabili, e  peserebbero in maniera insopportabile, se non ci fosse la condivisione universale della fragilità umana e la possibilità del perdono, che è un dono iterato. La questione del senso di colpa non è materia primariamente da psicologi, i quali analizzano le modalità della psiche esprimendo giudizi sulla patologia (o meno) degli atti umani, annoverando tra questi anche il senso di colpa, ma soprattutto da studiosi dell’anima spirituale, i quali sono deputati ad esplorare le questioni etico – valoriali. Il ricordo (che è un riportare nel cuore) di un atto cattivo non può e non deve essere rimosso, per due motivi: primo perché, come ha insegnato Freud, creerebbe carichi inconsci dagli esiti imprevedibili, secondo, perché non rimarrebbe presente alla coscienza come ammonimento morale. Di contro, l’elaborare l’atto cattivo può e deve portare al pentimento e quindi al suo superamento e al perdono.


[1]Gr.: impassibile

[2] 451 d. C.

[3] Cfr. Sap 13, 1 – 9

[4] Cfr. Dante, Inferno, Canto XXVI, 118 – 142

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