Patriarca d’Abruzzo
La collina digrada verso la valle boscata.
Ricordo gli aranci e gli alberi di fico, le querce onuste di vecchiezza. La solenne calura.
Di fronte il paese di San Vito che scende alla sua Marina, dove Giuseppe è nato novant’anni fa.
Gli ulivi a perdita d’occhio. In fondo al podere il mare dannunziano.
Il suo parlare rapsodico si fonde con silenzi ricorrenti.
Il vento leggero dell’autunno è consuetudine e quasi ricordo d’anni fa, di sua moglie Maria.
Memoria di transumanze lente, come di pastori.
Anni trascorsi. Anni. Mentre il presente scorre i suoi attimi – transitivamente – verso il futuro.
Tutto rimane nel cuore, perché niente scompare.
Frammenti del mondo interiore.
E allora comprendi quel poco che ti è dato:
dell’amore, del dolore, di chi ti ama, di chi fa finta.
E allora comprendi la dubitabilità della salute delle famiglie:
povera Sarah uccisa dallo zio (?) e dalla cugina. Finti amori.
Giuseppe è circondato da sempre da amore, altri no, altri…
E allora comprendi le vite inconsolabili e i lunghi silenzi.
Pensieri che giungono alla coscienza come un tam tam.
Pensieri transumanti come i pastori d’Abruzzo cantati dal Vate.
Mentre mi muovo per l’Italia, così, e accolgo la quotidiana fatica della vita. Tempi pieni di dolore. Tempi pieni di speranza.
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