Dai tempi del Mito, il maschile ha prevalso sul femminile, la relazione verticale, gerarchica tra un soggetto e un oggetto, la dialettica Io e il resto sulla dialettica Io-Tu.
Pochi pensatori maschi hanno notato delle crepe in questo ragionamento trimillenario, tipico del nostro Occidente, figlio degli stessi sommi Platone, Aristotele, fino a Kant e Hegel: forse solo Martin Buber e Emmanuel Lèvinas. Invece, sul versante del pensiero femminile qualcosa di più forte e preciso è stato detto, specialmente da Luce Irigaray, filosofa e analista belga.
Un’intervista recente a Irigaray tratta da www.swift.it
Lei dice: la cultura fin qui è stata solo maschile. Ciò può valere per il costume, le leggi e la mentalità. Ma io e lei comunichiamo, usando meccanismi universali. Dunque, c’è qualcosa di universale che permane. Non le pare?
“Cerco di comunicare con lei, ma ciò non elimina la differenza di genere. Che affiora sempre. Lavoro da anni sul linguaggio. Con campionature eseguite su lingue e culture diverse. Quel che emerge è che uomini e donne non parlano affatto allo stesso modo. Se chiedo a ragazzi e ragazze di comporre frasi per esprimere relazioni, usando ‘io/tu”, “condividere”, “amare”, “lei/lui”, viene fuori una reale diversità tra i sessi. I ragazzi privilegiano il rapporto soggetto-oggetto, l’uno-molteplice, la relazione con lo stesso o il medesimo. E poi la verticalità, cioè la genealogia e la gerarchia. Le ragazze privilegiano invece la relazione tra soggetti. La relazione a due, la relazione nella differenza, e orizzontale“.
Lei vuoi dire che le donne privilegiano l’emotività, l’immaginario, l’intuitività concreta?
“No. Questo è il suo modo – e con le sue categorie – di intendere il mio discorso. Non è quel che io dico. Nella filosofia occidentale, quando si affronta il tema della relazione con altri, al centro c’è quasi sempre il rapporto tra soggetto e oggetto, oppure il predominio logico del legame uno-molteplice. Non è in gioco la maggiore emotività della donna o l’immediatezza del “femminile”. A livello logico – da un punto di vista femminile – quel che viene privilegiato è invece l’intersoggettività. La relazione a due, con l’altro. Contro l’idea di un individuo isolato, autosufficiente e astratto. E a favore di una soggettività che si relaziona all’altro orizzontalmente“.
Non c’è a suo avviso una sintassi cognitiva comune a uomini donne?
“No, e lo riscontriamo grazie all’esistenza di lingue con sintassi diverse da quella occidentale. Lingue che non privilegiano la costruzione soggetto-predicato o soggetto-oggetto. Bensì il nesso soggetto-soggetto. Non esiste una unica sintassi universale, come quella ipotizzata da Chomsky“.
Per lei il femminile è addirittura un principio logico a sé, e non una specifica indole esistenziale o biologica dell’umano?
“La differenza di genere non è, come si è creduto, nel passato solo biologica. E neanche, come si crede spesso oggi, fatta soltanto di stereotipi sociali. E anzitutto una differenza di identità relazionale. Verificata, come già detto, dalle analisi sul linguaggio“.
Che cosa comporta questa visione, sul piano del sentire e del pensare? Essa riguarda solo le donne, o anche gli uomini?
“Nel mio lavoro ci sono tre tappe. La prima riguarda la critica di una cultura a soggetto unico. La seconda, la definizione di mediazioni per la costruzione di un’identità femminile autonoma. La terza tappa, quella che mi interessa di più, è la ricerca di un cammino per la convivenza a due. Tra uomini e donne“.
Immagina questa convivenza come alleanza, o come ineliminabile conflitto?
“Immaginare un’alternativa secca tra le due dimensioni sarebbe ingenuo. Non si tratta di restare in una conflittualità semplice e senza fine. Piuttosto occorre pensare a un’alleanza fondata sul riconoscimento di uno spazio negativo e insuperabile tra i sessi. Che custodisca la differenza. Significa: “Io non sarò mai te, né tua, e viceversa“.
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