Dell’Inizio e del Cantico
Uno dei testi più liricamente imaginifici e densi di significato della Sacra scrittura è il Cantico dei cantici, poema d’amore mirabile, un’espressione letteraria -nel contempo- di una franchezza sconcertante e di una delicatezza soave, dove i protagonisti sono un “lui” e una “lei” in dialogo, e dove agisce anche un coro di testimoni. In ben 117 versetti non vi è mai nominato il Nome di Dio, mentre si racconta, sia pure in stichi irregolari e frammentati, l’amore tra due innamorati, con tenerezza e con toni e temi molto arditi, ricchi di sfumature sensuali o decisamente erotiche, in un contesto e in un linguaggio umanissimi.
Nel Cantico l’amore è raccontato come forza primordiale che domina il cuore[1] dell’uomo, come energia divina che sostiene l’intero universo, e in qualche modo mostra come Dio stesso abbia voluto dare bellezza al creato e alle creature intelligenti che ivi ha posto.[2] Ma proprio il suo carattere profano, poiché il Nome di Dio non vi è mai pronunziato, ne ha fatto mettere in dubbio a suo tempo la canonicità. Ciononostante, sia la norma canonica ebraica,[3] sia quella cristiana lo hanno da tempi antichissimi tenuto in grande considerazione, essendo stato ed essendo interpretato da parte degli Ebrei alla stregua di un’allegoria religiosa dell’amore del Creatore per il suo popolo [Israele], e da parte dei Cristiani come immagine dell’amore tra Cristo e la Chiesa e tra il Lògos e l’anima spirituale.[4]
Il Cantico, pur avendo posto fin da subito notevoli difficoltà interpretative per il suo linguaggio poetico profano e la narrazione erotica, è stato recepito nei due canoni, riconosciuto come testo che evoca in modo inequivocabile il mysterium antropologico e teologico dell’amore, e dell’amore di Dio per la sua creatura e per il suo popolo, mentre gli esegeti hanno dovuto sempre affaticarsi tra i due estremi interpretativi, quello letterale e quello allegorico.[5] L’amore, chiamato nella Bibbia solitamente con il termine greco agàpe, è lo stesso amore che in questo testo è commentato come eros, termine perfettamente compatibile con il precedente, come vedremo in alcuni testi origeniani, che sottolineano la preoccupazione [la stessa dello scrittore biblico] di non confondersi con le degenerazioni di culti idolatrici pagani.[6] L’amore è uno e solo uno, si evince dal Cantico, anche se si manifesta in modi diversi e tra soggetti diversi. L’amore è nell’espressione del Cantico la gioia della vita, e anche quando è pura emozione, o ebbra partecipazione al desiderio dell’altro, siffatta da non sottostare alla ragione, ek-stasis di beatitudine, conserva la sua essenza di tensione positiva verso l’altro, sia come specchiamento di felicità raggiunta con le carezze [dodìm, in ebraico] e con la condivisione l’uno dell’altro, sia come autentica realizzazione di sé nell’incontro con l’altro, che è anche -teologicamente- l’assolutamente Altro.[7] Nel Cantico la dimensione e l’estetica agapica si configurano come coessenziali a quelle erotiche, quasi a sintetizzare ciò che parrebbe semanticamente così distante: la brama e il desiderio da una parte, e dall’altra il dono di sé e la scoperta dell’altro, ma anche dell’Alterità, che è Dio stesso.
Il verbo ebraico ‘ahev [amare] è il termine fondamentale del Cantico o Shir Ha-Shirim, ricorrendovi quasi una ventina di volte, talvolta anche sostantivato in ‘ahavah [amore], termine unico per esprimere ciò che in greco trova plurima traduzione in eros, philìa e agàpe, cioè nell’amore erotico, di affezione-inclinazione, di benevolenza o donativo, e che Origene sintetizzerà in un’unità di significato derivante dall’amore divino.
Il titolo dell’opera è un superlativo e va inteso come Il più sublime tra i cantici.[8] Cantico dei cantici significa anche “Cantico per eccellenza”. Si può dire che per certi aspetti non vi è libro biblico che abbia prodotto sull’animo umano e cristiano un effetto analogo.[9]
Milleduecentocinquanta parole compongono il Cantico, ma immenso è lo scenario che ha disegnato per secoli e per milioni e milioni di lettori. Degne di particolare osservazione sono le parole iniziali, anzi la Parola e la lettera iniziale, seguendo una certa modalità interpretativa tipica della tradizione medio-giudaica e successiva. Il titolo è dunque “Cantico dei cantici”, in ebraico Shir ha-Shirim. La prima lettera del Cantico è Shin scritta più grande delle altre.
Contrariamente alla linguistica latina, neo-latina, germanica e slava, in ebraico in tal modo non si vuole indicare una maiuscola, perché la maiuscola non è prevista, bensì l’importanza significante della lettera stessa. Nei ventiquattro libri canonici solo in quattro luoghi la prima lettera è scritta con caratteri più grandi delle altre: e la prima volta è nella prima Parola genesiaca, quel Bereshit che dà da pensare da millenni, dove la Beit è scritta maiuscola.[10]
La prima lettera della Torah è una Beit [e non una Alef], cioè la seconda dell’alfabeto, mentre la prima lettera del Cantico è una Shin, cioè la penultima dell’alfabeto. Ci si può chiedere se vi possa essere una connessione plausibile in questa simmetricità, una sorta di legame, una specie di analogia fra l’Inizio del mondo e l’Amore nella coppia umana, in quanto ambedue gli atti sono grandiosamente conformi a un unico progetto?[11] La domanda è affascinante per un lettore occidentale, che però non riesce a trovare facilmente un risposta plausibile, ma deve affidarsi alle infinite sponde dell’esegesi antica.
Concentriamoci ancora sulla lettera Shin, esaminandola anche da un punto di vista grafico: laש dove si osserva che il segno è essenzialmente costituito da tre linee unite in basso da un punto centrale. I rabbini delle tradizioni talmudiche ritengono che sia una rappresentazione dell’Albero della Vita, e che rappresenti i tre patriarchi ancestrali, Abramo, Isacco e Giacobbe, confluenti in un punto di unione, quale simbolo del popolo d’Israele.
La prima Parola, poi, Shir [Canto], potremmo dire con le parole della psicologia contemporanea, è una specie di sinestesia,[12] poiché afferma e sottolinea la superiorità -tra le espressioni umane- di ciò che è insieme letteratura, poesia e musica, cioè la Parola cantata, il canto che coinvolge ineffabilmente tutta l’interiorità e sensibilità umana, così come nella Torah si integrano i quattro gradini della struttura morfologica scritturistica: le consonanti, le coroncine soprastanti, le vocali e infine le note sulle quali il canto si eleva. Dei dieci Canti che compongono la creazione, secondo la tradizione ebraica, Shir ha-Shirim è il nono, come introduzione del decimo e ultimo, che verrà cantato quando apparirà il Messia. La stessa Parola latina “cantum” può suggerire alcuni approfondimenti. Le consonanti “c-n” potrebbero risalire alla radice ebraica medesima, tra l’altro indicante il termine “canna”, cioè “gola” o “trachea”, ovvero il “canale” che serve per cantare. Vi è da dire che la Parola “chen” [Chet-nun] in ebraico significa “grazia”, o armonia, simmetria. Il Cantico non trascura gli aspetti a-simmetrici o negativi, se si tiene presente che la radice di “cantum”, cioè c-n, può anche riferirsi a “chinà” [kaf-iod-nun-he], cioè “lamento”, ma il Cantico è tale in quanto cantico, e non il suo significante contrario, ad esempio Chinà Chinaoth o Il Lamento dei Lamenti.
Infine, la stessa radice Shir [composta dalle consonanti Shin e Resh] rappresenta anche il femminile [cfr. la parola italiana sir-ena], e che femminile! La sirena, l’ammaliatrice da cui lo stesso Ulisse dovette fuggire aiutandosi, però, in modo artificiale. Il Cantico, invece, invita l’uomo a non temere la donna, ma a considerarla su un piano di pari valore ontologico.[13]
La donna del Cantico, oggetto di questo amore, non è una sirena ammaliatrice, ma una creatura consapevole di possedere l’energia costruttiva e di gestazione dell’intera creazione, in modo particolare e privilegiato, moderando e orientando lo stesso principio maschile, che altrimenti si perderebbe -da solo- nel conflitto ancestrale della caccia e della guerra, per la difesa di una proprietà intesa come diritto assoluto.
[1] Bisogna avere presente che il “cuore” nella cultura semitica è il “centro della persona” e non è dominato dall’”io soggettivo”, come propone la psicologia scientifica moderna, ma è il luogo dove risuona la voce di Dio.
[2] Cfr. anche Sap 13, 1-9.
[3] Cfr. Rabbi Hillel fu maestro di grandissima fama che operò in Palestina nel I secolo d. C., e che considerò sempre il Cantico come il più elevato dei testi sacri. Cfr. Hertz J.H., The Pentateuch and Haftoras. Deuteronomy, Oxford University Press, London 2000.
[4] Il Cantico dei cantici, Shir ha-Shirim (םיךישקריש), o Cantico di Salomone (Shelomoh), è uno dei libri sacri che costituiscono il Canone biblico, sia ebraico, sia cristiano. Nell’ambito della Tanàch (raramente Tenàchךנת- – acronimo con il quale si designano i testi sacri della Bibbia ebraica – viene incluso nei i libri agiografici (Ketuvim). Nella Bibbia cristiana fa parte dell’Antico Testamento, nella sezione chiamata sapienziale.
[5] Sulle principali interpretazioni del Cantico, cfr. Dreifuss G., Maschio e femmina li creò – l’amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, Giuntina, Firenze 1996, pp.81-111.
[6] Come la prostituzione sacra.
[7] Ecco che anche la dimensione agapica si configura come coessenziale a quella erotica, quasi a sintetizzare ciò che parrebbe così distante: la brama e il desiderio da una parte, e dall’altra il dono di sé e la scoperta dell’alterità.
[8] Ha affermato Robert Musil: “Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici”, e Karl Barth: “Magna Charta dell’umanità, manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto e sulla sessualità”. Cfr. Canti d’amore del Cairo, Pap. Di Torino 1966; Pap. Chester Beatty 1 e altri, databili tra il 1300 e il 1150 a. C.; M.V. Fox, The Song of Songs and the Ancient Egyptian Love Songs, Madison, Wisconsin – London 1985.
[8] Cfr. Cant 8, 6f.
[9] L’espressione che troviamo al cap. 8, 3 “La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia” sono state spesso considerate come la sintesi poetica, simbolica e spirituale dell’intera silloge di poemetti, dedicati all’amore, alla coppia umana che appare sulla scena del mondo dall’inizio. E, cfr. anche Cant 8, 6f: si può dire che il Cantico contiene una religiosità quasi “laicale”, nel senso di appartenente profondamente al “popolo” [al λάος], ma rappresentando anche l’incarnazione della Parola di Dio in ciò che è umano, con il Suo nome che echeggia solamente nell’espressione “fiamma divina” [fiamma di Dio o fiamma di vita] che troviamo in Cant 8, 6-7.
[10] Oltre che nel Cantico dei cantici e in Genesi, gli altri due libri che hanno una lettera grande all’inizio sono il libro dei Proverbi di Salomone, che inizia con una Mem, e il primo libro delle Cronache, che inizia con una Alef. È interessante notare che tre delle quattro lettere scritte grandi sono le stesse tre che il Sefer Yetzirà chiama “lettere madri”: la Alef, la Mem e la Shin.
[11] A questo proposito si devono ricordare le due opere che formano la Kabalà, chiamate dai maestri talmudici Màassè Bereshit [l’Opera della Creazione] e Màassè Merkavà [l’Opera del carro].
[12] La sinestesia è una situazione di evidenza sensoriale multipla, nella quale i sensi esterni operano creando eccezionalmente una vera e propria integrazione sensoriale nella persona.
[13] Come si può evincere anche dalla profezia: Os 2, 18 – 19.21: “[…] poiché una cosa Dio ha creato in terra: la donna circonderà l’uomo (neqevà tesovev gaver) […] Ti farò mia sposa per sempre,/ ti farò mia sposa/ nella giustizia e nel diritto,/ nella benevolenza e nell’amore,/ ti fidanzerò con me nella Fedeltà/ e tu conoscerai il Signore”.
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