Il mio amico Roberto e Gunther Anders
Per una nuova filosofia della disabilità
(di Roberto Rosso*)
Disegno di Altan per «DM», giornale nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). per gentile autorizzazione di quest’ultima AssociazioneÈ estremamente stimolante, oggi, parlare di “filosofia della disabilità”, perché offre l’opportunità di considerare quest’ultima sotto una veste completamente nuova. Intendere filosoficamente la disabilità vorrebbe dire offrire un cambio di paradigma radicale a quanti la vivono, uno sguardo nuovo che potrebbe – e a mio avviso dovrebbe – essere alla base del progetto di inserimento socioeducativo di qualsiasi disabile.
La disabilità, infatti, è stata finora vissuta – dagli abili, ma anche e soprattutto dai disabili – come un deficit costitutivo rispetto al naturale essere nel mondo del soggetto, un ostacolo da aggirare, da abbellire, da ignorare, ma comunque sempre il punto focale attorno al quale ruota tutto il resto, dai modelli proposti, ai progetti di aiuto, alle offerte di inserimento.
La stessa idea di divers-abile – per quanto in voga in questo periodo – sembra proprio andare in questa direzione, nel tentativo di aggirare un ostacolo che comunque rimane a fondamento dell’approccio alla realtà. Perciò, quando mi pongo rispetto al mondo come “non abile”, o anche quando penso di dover faticosamente industriarmi ad essere abile in altra maniera, non sposto per nulla il problema e sono comunque costretto a definirmi rispetto al concetto di un’abilità che mi è in se stessa inaccessibile.
La riflessione filosofica su questo punto potrebbe proporre la considerazione della nostra condizione come un elemento costitutivo del nostro approccio alla realtà, un guardare tra gli ostacoli che – nel momento stesso in cui cessano di essere considerati in quanto ostacoli – divengono semplici elementi imprescindibili del nostro modo di vedere il mondo.
Questa prospettiva, tuttavia, si scontra con delle difficoltà oggettive nel mondo in cui viviamo, primo fra tutti un problema terminologico molto indicativo del problema che propongo, ossia l’impossibilità di definirci per ciò che siamo, ma di dover partire da ciò che non possiamo essere: disabili, diversabili, invalidi, handicappati sono tutte definizioni che ci considerano “rispetto a ciò che non siamo”. La filosofia della disabilità vorrei dunque che fosse il tentativo di ragionare sulla nostra condizione in termini positivi che passassero anche da proposte terminologiche più adeguate.
Ma in fondo il problema terminologico è solo indicativo di una situazione fattuale ben peggiore. Se infatti fosse solo un problema di flatus vocis, potremmo farcene una ragione e scherzarci su. Ma così non è purtroppo: i paradigmi, i modelli che la società ci propone sono sempre modelli di abilità adattata. Il disabile vive in un contesto familiare e sociale abile.
Pur rendendomi conto che non potrebbe essere altrimenti, non posso non notare come ciò rappresenti un condizionamento decisivo nel nostro approccio al reale. La disabilità nella società di oggi non è vista come un valore in cui potersi riconoscere, ma come un difetto da mascherare, da capire, da accettare, da accogliere, ma che sempre difetto resta.
Quanti eroi hollywoodiani transitati incidentalmente nella disabilità sono guariti alla fine del film? Quello su cui la mia generazione deve lavorare è proporre dei modelli credibili di vita che non siano lo scimmiottamento ridicolo di ciò che non possiamo essere, ma l’incarnazione del nostro modo di vedere il mondo, desiderabile e perseguibile in quanto tale.
Purtroppo, però, il primo ostacolo a questo cambio di prospettiva sono i disabili stessi che, cresciuti in un contesto che li pone ai margini con tante belle parole, sognano improbabili rivalse che non potranno avere.
Se i primi a considerarci disabili siamo noi stessi, se sognamo di correre i 100 metri con gli abili nonostante le nostre disabilità, rimarremo sempre vittime di un modello che costitutivamente ci è precluso.
Il nostro compito non è quello di mostrare di essere bravi quanto gli abili, in una ridicola gara che ci vedrebbe sempre a rincorrere, ma semplicemente di essere noi stessi, offrendo noi stessi come modello di vita.
Mi piacerebbe dunque che si aprisse un ampio spazio di dibattito, utile in se stesso a rinnovare gli schemi culturali alla base del mondo disabile, o quanto meno a definire la serie di temi che ineriscono alla filosofia della disabilità, sperando che possano essere oggetto di discussioni successive.
*Filosofo della Retorica.
Ho pubblicato qui sopra l’articolo del mio amico Roberto Rosso, filosofo torinese, con cui abbiamo fatto un seminario sabato scorso, e di seguito desidero citare alcune riflessioni di Gunther Anders, che ci stanno proprio…
Il pensiero di Anders si occupa del pensiero tecnologico e delle sue influenze sull’uomo. Se Roberto Rosso sopra ci dice che il disabile deve “essere e fare il disabile”, come species diversamente dignitosa dell’uomo, e non meno dignitosa, Anders (in tedesco “diverso”) che si chiamava Stern, afferma che rischiamo di diventare tutti “diversabili” con l’incombere della tecnologia omni avvolgente.
Secondo il nostro la macchina e gli oggetti prodotti in serie sono diventati i protagonisti della storia, mentre l’uomo rischia di essere sempre più inadeguato (vedi pezzo sotto su Elena e Jacopo).
L’homo tecnologicus è un novello Prometeo subalterno alle macchine da lui stesso create, che lo sopravanzano per potenza ed efficienza. Oggi il sentimento che si rischia è di sentirsi inadeguati, quasi antiquati.
Il rischio generale che si corre oggi è di compromettere irreversibilmente l’equilibrio vitale creatosi in secoli di convivenza tra uomo e natura, a volte tragica e a volte incoprensibile, ma alla fine sempre capace di riequilibrarsi.
La televisione è il simbolo dei simboli di questa trasformazione drammatica. Anders afferma: “Ogni consumatore è un lavoratore a domicilio non stipendiato che coopera alla produzione dell’uomo di massa”, e aggiunge: “Dato che il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla ricerca; rimaniamo privi di esperienza”. La tragedia è che la televisione fa cadere ogni barriere tra realtà e fantasia, e oggi, con i cellulari ciò si esplicita alla massima potenza.
Anders si occupa anche del potere distruttivo dell’energia nucleare dopo Hiroshima e Nagasaki. Di seguito le sue tesi, che vale la pena di considerare come monito.
1) Il 6 agosto 1945, giorno in cui fu sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento la terra intera in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Quest’epoca è l’ultima: la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, non può aver fine che con la sua stessa fine.
2) La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche “armi atomiche”, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di “armi atomiche”, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
3) Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
4) Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle “cortine”. Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro rispetto agli effetti dei nostri prodotti, dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l’orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch’esso globale. Non ci sono più che “vicini”.
5) Ciò che si tratta di ampliare, non è solo l’orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del nostro presente. Tutto ciò che è “venturo” è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi.
6) Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe. Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di qualcosa di particolare, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso. Questa “astrazione totale” trascende le forze della nostra immaginazione naturale.
7) Ma poiché, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacità limitata della nostra immaginazione (la nostra “ottusità”) non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: “Noi siamo inferiori a noi stessi”, siamo incapaci di farci un’immagine di ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo “utopisti a rovescio”: mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.
8) La frattura che divide l’umanità non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa. Questo “scarto” non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione. Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l’effetto possibile dell’agire, e tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo “scarto”, tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona. Al “subliminare”, noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare già una reazione), corrisponde il “sopraliminare”: ciò che è troppo grande per provocare ancora una reazione.
9) Nulla di più falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo già nell'”epoca dell’angoscia”. Questa tesi ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Va da sé che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1) Un’angoscia senza timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi. 2) Un’angoscia vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un’angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe capitarci.
10) L’imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente irrealizzabile. Non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare.
11) Sarebbe una leggerezza pensare che quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, sappiano immaginare l’inaudito meglio di noi. Assai più legittimo è il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel “campo dei problemi atomici e del riarmo”, e invitandoci a non “immischiarci”. Molti di loro si appellano alla “competenza” solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola “democrazia” ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la “res publica”, che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E un problema più “pubblico” della decisione sulla nostra sopravvivenza non c’è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a “immischiarci”, mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
12) Oggi si può avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. L’uomo che schiaccia il tasto non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo dell’azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e l’effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. E’ chiaro che solo chi arriva a immaginare l’effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell’azione, e cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente, oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all’autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l’autore è una vittima.
13) Finché l’agire si traveste ancora da “lavorare”, è pur sempre l’uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioè che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest’ultimo residuo: il che è già accaduto. Poiché l’agire si è trasferito (naturalmente in seguito all’agire degli uomini) dalle mani dell’uomo in tutt’altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per così dire, “azioni incarnate”. La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà negare che il ricatto è un’azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma più menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c’entriamo. Assurdità della situazione: nell’atto stesso in cui siamo capaci dell’azione più enorme – la distruzione del mondo – l'”agire”, in apparenza, è completamente scomparso. Poiché la semplice esistenza dei nostri prodotti è già un “agire”, la domanda consueta: che cosa dobbiamo “fare” dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come “deterrenti”), è una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
14) La guerra atomica possibile sarà la più priva d’odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l’amore positivo). Certo l’odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra. Per alimentarlo, si indicheranno oggetti d’odio ben visibili e identificabili, “ebrei” di ogni tipo. Ma quest’odio non potrà entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
Conviene dunque pensare che il nostro mondo non è stabile. Il nostro mondo può anche diventare un qualcosa che è “semplicemente stato”. Siamo più “caduchi” di tutti quelli che sono stati sulla terra prima di noi e lasciamo un mondo più pericoloso. Possiamo rimediare ancora perché abbiamo la libertà.
1 Comments
Leave a Reply
Caro Renato
Anzitutto un grazie, la tua attenzione mi lusinga e ritengo le cose che hai
scritto molto pertinenti anche se non credo di meritare un
simile accostamento
Tuttavia
pur condividendo da un punto di vista formale il ragionamento di Anders,
ci sono un paio di questioni che mi arrovellano da ieri sera e di cui
vorrei discutere con te, poichè tuttora non mi sono ben chiare. La
disabilità come “species” pone chi la vive in una posizione unica
rispetto alla tecnologia e consente una visione del mondo totalmente
diversa da quella consueta.
La tecnologia infatti, nella sua opera costante di sopravanzamento
compie anche un livellamento, un annullamento delle differenze per cui
l’individuo perde ogni peculiarità distintiva e si riduce solo a
entità semovente capace di premere un bottone. Ed è qui che la
disabilità apre una prospettiva del tutto nuova: chi beneficia infatti
di questo annullamento delle differenze se non il disabile, che queste
differenze quotidianamente subisce? L’avvento della tecnologia,
arrestando il dominio dell’uomo “abile” sul mondo permette un recupero
di chi abile non è. La tecnologia è infatti cardine di quella che non
a caso oggi si chiama in gergo medico “ri-abilitazione” per disabili.
Ma c’è di più: giustamente Anders dice che la tecnologia “fa cadere
ogni barriera tra realtà e fantasia”. Chi beneficia di questo se non
coloro che dalla realtà ricevono solo guai? Condizionato dalle
barriere architettoniche reali che oggi sono tutt’altro che abbattute
ma solo mascherate dal potente e subdolo trucco dell’ipocrisia, il
disabile gode di questa apertura al mondo virtuale che gli offre
potenzialità prima solo sognate.
Quindi alla fine concordo con te ed estremizzo il tuo concetto
iniziale: l’ impero tecnologico infatti , dopo aver livellato la
differenza tra abili e disabili in senso tradizionale, sta imponendo
sempre di più un proprio parametro di abilità per cui i nuovi disabili
non saranno tanto quelli che soffrono problemi fisici, ma coloro che,
per i motivi più diversi, sono posti ai margini di questa nuova
dimensione tecnologica.