Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Lo sciabordio del mare e altri racconti

“Qui da noi sono i cimiteri pieni di neve

a scandire il silenzio

ovunque

sgocciolano al lieve tepore i coppi

delle muraglie

ma la neve scompare

lasciando intermini spazi

senza frangivento.”

 

“La calda stagione ha voci

che quietamente complottano nelle boscaglie

prima che tutto nell’autunno allibisca

e gli uccelli migratori se ne vadano.”

da La cerchia delle montagne, Arti grafiche Friulane, Tavagnacco 1997

Quello che percepiamo del mondo avviene attraverso i nostri sensi, e viene elaborato dal nostro intelletto, o mente o psiche, che dire si voglia. Viene appreso e interiorizzato.

Il pensiero filosofico e psicologico di ogni tempo si è interrogato sulla corrispondenza tra ciò che percepiamo, cui abbiamo dato un nome e per cui proviamo emozioni, e ciò che effettivamente esso è -in sé e per sé- indipendentemente dal nostro percepirlo, osservarlo e descriverlo, o semplicemente ascoltarlo e ammirarlo.

Il dibattito antico (da Socrate, la Sofistica, Platone e Aristotele in poi) si svolgeva fra tre ipotesi conoscitive:

– la prima era detta adaequatio intellectus ad rem: in questa ipotesi l’intelletto si adeguerebbe, si piegherebbe alla cosa percepita per conoscerla, dopo averla percepita attraverso i sensi esterni;

– la seconda era detta adaequatio rei ad intellectum: in questo caso la cosa sarebbe percepita secondo le disposizioni del sistema percettivo soggettivo e poi codificata e classificata, in sostanza sarebbe conosciuta dall’intelletto (quest’ultimo sarebbe, in questa visione, la misura di tutte le cose);

– la terza era detta adaequatio intellectus et rei: in questa terza ipotesi si darebbe una possibilità di incontro tra la cosa percepita e il soggetto che percepisce e classifica, codifica, nomina …

Le visioni cognitive oscillano tra un massimo di positivismo realista (la prima), al un massimo di scetticismo o di idealismo (la seconda), trovando nella terza una sorta di composizione che possiamo definire di “realismo moderato” (specialmente in San Tommaso d’Aquino e nel teologo-filosofo arabo Averroè): l’uomo è misura delle cose che in qualche modo sono conoscibili.

Le visioni cognitive oscillano tra un massimo di positivismo realista (la prima), al un massimo di scetticismo o di idealismo (la seconda), trovando nella terza una sorta di composizione che possiamo definire di “realismo moderato”:[1] l’uomo è misura delle cose che in qualche modo sono conoscibili. La rivoluzione filosofico-scientifica dei  secoli XV, XVI e XVII,[2] e in seguito lo sviluppo delle filosofie materialiste e sensiste da un lato, e idealistiche dall’altro, ha messo al centro di tutto il processo cognitivo il soggetto. Il culmine di questo pensiero è rappresentato dalla triade tedesca composta da Fichte, Schelling e Hegel, autorevolmente preceduti dal criticismo di Immanuel Kant. Tale indirizzo nega recisamente le condizioni di possibilità di una conoscenza del realtà in sé e per sé, cioè di tutto ciò che è e che appare in quanto è, come apparire dell’essere in quanto tale, al punto da negare la possibilità di definire l’essere in sé, come principio metafisico degli enti e come datore dell’essenza agli enti stessi.


[1] Specialmente in Tommaso d’Aquino e nel teologo-filosofo arabo Averroè.

[2] Da Copernico a Cartesio, a Galileo a Newton.

Nel secolo scorso la grande rivoluzione delle scienze umane (psicologia e scienze affini) e delle neuroscienze da un lato, e la fisica teorica dall’altro (Einstein, Dirac, Heisenberg …) hanno posto in ipotesi una conoscenza che può essere in qualche modo anche oggettiva, ma in perpetuo divenire (Parmenide + Eraclito), per cui ogni scienza si deve accontentare di uno statuto epistemologico provvisorio e perfettibile.

Wittgenstein e altri viciniori, o in altro modo Buber e Lévinas, hanno proposto come strumento supremo di conoscenza il linguaggio e la relazione con l’Altro, ed effettivamente esso ha un’importanza che va oltre la mera comunicazione, perché presuppone che il soggetto conoscente accetti e riconosca l’Altro come “luogo di riconoscimento” di se stesso e quindi del mondo.

Un’altra antica tradizione, che risale ai Padri e agli Scrittori del Protocristianesimo (a Origene sopra tutti), l’ermeneutica, ha accompagnato lo sviluppo del pensiero umano occidentale degli ultimi duecento anni, da Schleiermacher al nostro Pareyson, a Gadamer, a Ricoeur: per costoro tutto si può in qualche modo comprendere, ma alla luce di una  continua operazione interpretativa, che mette in gioco il lettore e il suo tempo con lo scrittore e il suo, rinviando sempre la pretesa di un accesso definitivo alla realtà come verità, utilizzando il linguaggio della metafora e apprezzando l’infinita polisemanticità dei testi che descrivono l’uomo e il mondo.

Ora, tutto questo che ho sopra molto semplificato, va visto anche alla luce della “lanterna personale” che abbiamo, come dice il mio amico Roberto Rosso, disabile, senza nessuna velleità di mostrarsi diverso, e di cui pubblico un altro pezzo intrigante. Anche lui non conosce il mondo meno bene (o meno male) di me.

Le condizioni che porrei al Genio della Lampada

(di Roberto Rosso*)

La favola di un Genio della Lampada che presentandosi a un disabile gli offrisse di renderlo improvvisamente “abile”, cancellandone tutti i ricordi della precedente disabilità, suggerisce un imperativo morale da seguire: vivere la vita da disabile, come se ogni giorno si dovesse rifiutare l’offerta di quel Genio di cambiarla con un altra che si suppone migliore
Immaginate che il classico Genio della Lampada venga a dirvi: «Io posso guarirti, ma considera che la mia guarigione sarebbe radicale e concernerebbe tutti i ricordi che in questi anni sono stati in qualche modo legati alla disabilità: conserveresti quelli legati alle informazioni sul mondo, sui tuoi studi, sulle tue passioni, ma perderesti ogni riferimento alla disabilità, alle sofferenze a questa connesse, alle esperienze fatte tramite essa e alle persone conosciute in questo ambiente. Accetti?».
È ovvio che per molti di noi con patologie gravi, con un quotidiano molto pesante, poco autonomo e con una ridotta aspettativa di vita, la tentazione di accettare senza condizioni è molto forte e comprensibile. Ma come sapete, noi filosofi siamo dei rompiscatole pieni di dubbi e quindi, superata la prima emozione, mi chiederei: «Cosa sarei io senza la disabilità?»; «cosa sarebbe la mia vita senza i ricordi, le emozioni, le sofferenze, le difficoltà, le persone che ho conosciuto in questo ambiente?». Sarebbe certamente più bella. Sarebbe zeppa di sport, di esperienze sessuali, di amici, di movimento, tutte cose che, a ben vedere, posso fare anche ora, ma che – non prendiamoci in giro – senza la disabilità sarebbero mille volte meglio.
Eppure, ci sono due o tre cose che mi inducono a dubitare. La prima: quand’anche la vita abile che immaginate di poter avere fosse così bella, sarebbe vostra? Vi apparterrebbe davvero? Senza la disabilità non mancherebbe qualcosa?
I primi sei mesi sarebbero bellissimi, una “gran figata”. Gli abili non si rendono neanche conto di quanto è bella la loro vita e noi succhieremmo queste esperienze come una droga, come una sbornia, uno splendido orgasmo. Ma poi? Siete sicuri che non avreste nostalgia, non sentireste la mancanza di questo modo di vivere che avete cancellato su due piedi?
E se poi le vite abili non fossero tutte cosi splendide come ora ce le immaginiamo? Noi ora tendiamo a incolpare la disabilità di alcune sfortune e insuccessi che potremmo benissimo avere in egual misura anche da abili. Chi ci dice che non diventeremmo lo stesso dei mediocri sportivi al limite dell’incapace, degli sfigati in amore, e dei “Fantozzi” sul lavoro? Gli abili non sono tutti Van Basten, Casanova e Bill Gates: per ogni persona con un qualche talento, ce ne sono migliaia di mediocri. Siamo sicuri che faremmo carte false per vivere una vita abile, mediocre al limite del fallimentare? Siamo sicuri che fareste cambio con ogni tipo di vita purchè abile?
Pensate a un personaggio storico discutibile, a un politico che non vi piace, al campione di una squadra avversaria o semplicemente al vicino di casa sfigato. C’è almeno un abile con cui non fareste cambio? Io credo non sia difficile trovarne almeno uno, ma penso proprio che si possa dire anche più di uno. Vorreste fare cambio con loro?

Non so voi, ma alla fine questa mia schifosissima vita disabile mi sembra comunque migliore di quella di molti abili che conosco. Questa mia sofferenza, questa mia sfiga rappresentano un valore che mi ha permesso di essere quel che sono e mi ha dato una possibilità di uscire dalla mediocrità di tante vite abili.
Se questo concetto vi sembra ostico, è perchè non riuscite a vedere il valore della vostra disabilità, a considerarla la vostra sfida, il vostro banco di prova, la vostra conquista, la vostra via per il successo. Se riuscite a dare questo valore alle cose, non avrete alcun bisogno di una vita abile “da Van Basten”, perché lo siete già nella vostra partita, nella vostra sfida. Se non riuscite invece a dare valore a questa vostra vita, a fare sacrifici per essa, a lottare, a rialzarvi dagli insuccessi, cosa vi fa pensare

che in una vita abile invece riuscireste?

Quindi alla fine cosa rispondereste al Genio? Personalmente porrei delle condizioni e non vorrei rinunciare al ricordo e agli insegnamenti di questa mia esperienza. Se poi non fosse possibile contrattare con il Genio, allora la tentazione in me di parafrasare un notissimo gioco a premi e dire «Ringrazio, rifiuto e vado avanti», sarebbe fortissima. Avrei perso molto, ma avrei guadagnato una stima di me stesso che non ha prezzo.
Questa storia del Genio potrebbe dunque darci un imperativo morale da seguire: «Vivi la tua vita (disabile) come se ogni giorno dovessi rifiutare l’offerta del Genio di cambiarla con un’altra che supponi migliore».
*Filosofo della Retorica.

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