Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Malinconia slovacca

Nord est di Bratislava. Quasi sul confine ungherese.

Mi trovo a Galanta, la città delle “danze” di Anton Dvorak.

La primavera tarda ad arrivare e il freddo mattutino è ancora pungente.

Entro in azienda di prima mattina. Giornate di colloqui individuali con le prime linee, quadri e ingegneri dell’azienda friulo-slovacca.

Il volti si susseguono con le loro storie e le loro emergenze genetiche ed etniche, zigomi forti e occhi lievemente obliqui negli ungheresi; volti più diafani nelle donne slovacche. Qualcuno alto e solido, qualcun altro più basso, schiatta di contadini della puszta. Vi è chi ha un volto da giovane Werther. Le donne hanno per cognome quello del padre o del marito declinato al femminile.

La lingua è un po’ ostica, consonantica, ma l’interprete è brava e gli ingegneri parlano inglese con me. Capisco molte parole di slovacco che sono traslitterazioni greco-latine. Tutti i termini che descrivono l’uomo, la psiche, il comportamento, le emozioni. Ci sono le declinazioni come in latino e greco.

Oggi le multinazionali italiane (Banca Intesa, Assicurazioni generali, quella, più piccola, per cui mi trovo lì), tedesche (Wolkswagen, Bosch), francesi (PSA-Peugeot), giapponesi (Samsung) prendono piede aprendo stabilimenti. In albergo breakfast alle 7.00 di mattina accanto ai manager giapponesi della Samsung, piccoli, gentilissimi con le loro segretarie slovacche che li vengono a prendere, o i grossi e rumorosi tedeschi.

Il vento pannonico ha spazzato le nuvole rifacendo azzurro il cielo. Budapest è a cento e venti chilometri a est-sud-est. Più vicina è l’ansa del Danubio di Ezstergom, ultimo baluardo mitteleuropeo prima dell’Est e dei Balcani.

La strada che porta a Galanta, dove mi trovo, è sulla direttrice che volge ai Monti Tatra, a Cracovia e, tra le brume del tramonto, di qui si intravede la linea azzurrina dei Piccoli Carpazi.

La sensazione è buona. Taliansko (italiano) è un aggettivo ammirevole, oltre ai meriti indubbi della nostra vecchia Patria, così percorsa da brividi di miseria morale e mentale, ma pure sempre erede, nell’immaginario collettivo di queste genti, della più grande storia antica d’Europa, e depositaria della bellezza.

Il fondo antropologico di questa gente, attento e grato, sembra sia la malinconia, quasi metafora personologica e presagio delle nebbie autunnali che scendono sulle pianure. Appena accennata nei maschi, di poche parole, capaci di articolare non molto più di monosillabi puntuti come spigoli, e piccole frasi nervose presto concluse.

Evidente nei volti già maturi delle donne ventenni, non raramente belle e alte. Con gli occhi verdeazzurri e le mani grandi. Spesso al secondo matrimonio a venticinque anni. Figli e figlie di divorziati scomparsi, come se, dopo la fine dell’utopia burocratica comunista, e l’incontro con il sogno di plastica capitalista, si fosse creato un diabolico mix esplosivo. La costrizione sostituita dalla libertà sembra avere fatto implodere le coscienze, brancolanti nel sommovimento e nell’incertezza esistenziali. Ma si tratta di libertas minor, di una libertà rivoltosa e incazzata. È il tipo di libertà che sta spegnendo l’Occidente. Speriamo non ci vogliano molti anni perché se ne accorgano.

I tre angoli delle case e delle famiglie sono sostenuti dalle donne, con gli uomini che spesso spariscono a folleggiare in nottate di birra e racconti di caccia.

I Suv e le auto tedesche sono il sogno dichiarato dei trentenni in carriera.

L’Europa e il mondo stanno cambiando. La domanda è: come? Si sarà capaci di trovare una strada diversa, sia dalla vecchia burocrazia sovietica, sia dalla tecnocrazia? Non ho risposte.

Sto ad osservare nel mio piccolo, dal vivo, quello che accade, cercando di avere fiducia nell’umana intelligenza.

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