Le chiavi della Giustizia
La virtù di giustizia è tratta da Aristotele nel libro quinto dell’Etica Nicomachea. Si può riassumere nel detto latino, che fu traccia fondamentale per Tommaso d’Aquino “reddere unicuique suum” (Summa Theologiae, II II, q. 57-80), dare a ciascuno il suo.
Si estrinseca in tre modi: a) giustizia generale che riguarda le leggi, b) giustizia di scambio, concernente i rapporti d’affari e i contratti (di lavoro in primis, nei quali essa si deve realizzare tra prestazione e retribuzione), c) giustizia distributiva, riguardante il welfare, cioè il diritto di ciascuno ad avere risorse per una vita dignitosa.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1807 si dice: La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata « virtù di religione ». La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune. L’uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri Sacri, si distingue per l’abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo. « Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia » (Lu 19,15). « Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo » (Col 4,1).
La questione della giustizia ha a che fare con la politica e con la filosofia di tutti i tempi e di tutti i popoli.
La giustizia ha a che vedere con tutti gli aspetti della vita umana, e dunque si tratta anche della giustizia nelle carceri, perché l’uomo, anche quando perde i diritti civili, non perde i suoi diritti fondamentali di essere umano.
Leggiamo in proposito il decreto che fece promulgare l’imperatore d’Austria-Ungheria Giuseppe II nel 1788, all’art. 61: “Le prigioni devono essere asciutte, nette e fornite bastevolmente di aria e di luce, insomma, condizionate in modo che la salute dei carcerati non sia esposta a pericolo, e che la persona non soffra altro male oltre a quello che sarà necessario per impedire l’evasione, e che dovrà riguardarsi per una conseguenza inevitabile della sicura sua detenzione“. Quello che poi descrisse Silvio Pellico ne Le mie prigioni è anche molto altro, per cui si può dire che in ogni tempo e luogo molte leggi o molta parte di esse sono state disattese.
Vediamo che cosa dice la Costituzione della Repubblica Italiana, che, anche se non è o fosse la più bella del mondo, comunque si esprime in modo chiaro. L’articolo 25 della Costituzione, definisce e sancisce il principio costituzionale di legalità: del reato, perché non vi può essere punizione se non per aver commesso un atto che la legge ritiene reato; della pena, perché essa deve essere comminata in base alla legge e deve essere certa, determinata nella sua tipologia e quantità.
Permane, però, un ampio spazio alla discrezionalità giurisdizionale [art. 133 c.p.]. Il tema della discrezionalità, si pone e si pone con forza, soprattutto dopo un lungo periodo di pena.[1] Diciamo infine che la pena è personalissima, come recita l’art. 27: “La responsabilità penale è personale“, e si estingue con la morte del reo condannato, a differenza di quanto avveniva nel passato. Lo stesso articolo 27 inoltre, però, al terzo comma, dichiara il principio di umanizzazione della pena: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità“.[2]
Quello che sta accadendo da molti anni nelle carceri italiane è invece il contrario. Se le vittime devono essere primariamente considerate e risarcite e su questo vi sono parecchi episodi che testimoniano del contrario, i detenuti, molti dei quali (il 30%) sono ancora in attesa di giudizio, devono essere considerati esseri umani, non ammucchiati come animali (le carceri italiane ospitano oltre un terzo in più della loro capienza). E infine, occorre giustizia giusta anche in proporzione al reato commesso, come pena e come espiazione.
Anche questo non sempre si verifica: sconti di pena, riconoscimenti, affidamenti per alcuni; spietatezza, sfiducia, determinazione occhiuta nei confronti di altri.
[1] Naturalmente sappiamo che altri interventi sullo sconto della pena possono essere determinati diversamente anche in virtù di una norma legislativa o dall’esercizio di una prerogativa sovrana [amnistia, indulto, grazia]. Ovviamente la pena deve essere correlata alla legislazione esistente prima della commissione del reato, e non può essere retroattiva, come osservava Hobbes: “[…] se la pena suppone un fatto giudicato come una trasgressione della legge … il danno inflitto per un’azione fatta prima che esistesse una legge che vietasse, non è una pena ma un atto di ostilità, poiché prima della legge non v’è trasgressione alla legge“.
[2] Questo articolo, peraltro, costituisce il fondamento etico dell’abolizione della pena di morte nell’ordinamento italiano.
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