Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Caso, probabilità, necessità e… fragilità

Quando si parla di caso e di probabilità si manifesta esplicitamente il limite che ognuno di noi ha nella conoscenza. Se non conosciamo il vettore evidente di una causa, non riusciamo a comprendere e poi magari a spiegare un effetto. Rimaniamo nell’ignoranza dell’evento, potendo solo esprimere ipotesi o illazioni.

Se non siamo in posizione alta (su un condominio e su un terrazzo che fa angolo) all’incrocio tra due strade di cui una ha diritto di precedenza, e assistiamo allo scontro tra un’auto che non dà precedenza allo stop e una che ha la precedenza, tendiamo a dire che “è stato un caso“, una co-incidenza, mentre invece dalla posizione dominante sul terrazzo del condominio, possiamo conservare la nozione causale: il vettore-auto1 che non dà la precedenza al vettore-auto2, e con questa impatta, necessariamente. 

Nel 1763 Thomas Bayes propone la sua teoria probabilistica di cui sotto vediamo un esempio. 

Se lanciamo in aria un dado e ci chiediamo ogni quanti lanci verrà l’uno o il due o il sei, tendiamo a dire forse una volta su sei. Ma non è vero. Oppure può darsi che avvenga anche ogni tre volte se la probabilità di ottenere “4” con il lancio di un comune dado (evento A) ha probabilità P(A)=1/6 di verificarsi. Sapendo però che il risultato del lancio è un numero tra “4”, “5” e “6” (evento B), la probabilità di A diventa, appunto 1 su 3.

…e Bruno de Finetti nel 1963 afferma: “La probabilità non è nient’altro che il grado di fiducia (speranza, timore, …) nel fatto che qualcosa di atteso (temuto, o sperato, o indifferente) si verifichi e risulti vero”.

Un’altra riflessione concerne il probabilismo ontico, in base al quale ciò che è necessario rappresenta il massimo delle probabilità e ciò che è casuale il minimo delle probabilità. La dialettica necessità/caso si dà quindi in una scala astratta, ma matematicamente calcolabile per approssimazione caso per caso con adeguati algoritmi, dove la casualità è l’estrema improbabilità e la necessità l’estrema probabilità.

Mi chiedo, ora che Lance Armstrong ha confessato di avere assunto l’Epo per vincere, senza pentirsi, mai incappando in un controllo che lo potesse incastrare, avesse (per caso?) studiato Bayes e de Finetti, oppure se il “sistema ciclismo” fosse (è?) talmente marcio da subire il “sistema-Armstrong”.

E’ come se uno potesse scriversi da solo un sistema etico, dove il dover-essere non è legato al bene  e alla giustizia, ma alla propria particulare convenienza. “Se non prendo sostanze non vinco perché gli altri le prendono e dunque mi adeguo, e se sono io a fare da caposcuola non mi interessa, perché il sistema funziona così“. Questo il teorema sotteso alla confessione-non ammissione di colpa di Armstrong. Nel suo piccolo antropologico e sociale (comunque enorme scandalo sportivo) assomiglia vagamente alle giustificazioni di Eichmann davanti al tribunale di Tel Aviv nel 1961.

Un sistema etico non può essere affidato alla trialettica caso-necessità-probabilità, a meno che il male stesso non sia costituito da pura banalità (Arendt), anche se in parte lo è. E in parte, direi soprattutto, è omissione volontaria al bene da parte dell’uomo, certo nella misura del libero arbitrio, su cui verte una quasi trimillenaria discussione in Occidente e più antica ancora in  Oriente.

Basterebbe recuperassimo il senso e la nozione del nostro limite, della nostra finitezza, della nostra fragilità strutturale di esseri umani, animali razionali fin che vogliamo ma cagionevoli, esposti, mortali, per non tentare di superare ciò che la Natura ha determinato per noi, (sotto l’occhio vigile della Mente).

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