Cambiamenti e discontinuità
il lavoro, e quindi la vita umana, cambieranno ancora. Come è naturale che sia. E radicalmente. Non perché lo sostiene Jeremy Rifkin da qualche decennio, ma perché se ne intravedono le vestigia, i segnali ancora deboli, ma ben visibili. Finirà il lavoro di massa (sta già finendo), con buona pace dei sindacati generalisti, “di classe”. Ad esempio il mio lavoro “di massa” è già finito da quasi vent’anni. Forse sono un prodromo. Ogni giorno io cambio mediamente almeno tre aziende, e tratto cinque/otto argomenti (due/tre per azienda). La preparazione che mi è richiesta è verticale, in alcune specializzazioni, e trasversale, come sapere organizzativo, basato su un’epistemologia flessibile e adattabile.
Energie rinnovabili e pulite, cura dei luoghi dove si abita e dell’ambiente, cultura, beni durevoli di grande qualità (alla faccia di chi prevede il declino del manifatturiero), infrastrutture intelligenti, flessibilità.
Siamo sette miliardi di individui che cominciano a competere con i virus per il dominio della terra (cf. David Quammen Spillover, Animal Infections and the Next Human Pandemic, Norton & Co, New Jork-London), e abbiamo bisogno di pensare veramente a ciò che stiamo facendo. Una decrescita controllata e variegata può contribuire a migliorare lo sviluppo umano. Una maggiore attenzione all’Indice di Sviluppo Umano piuttosto che al Prodotto Interno Lordo può aiutare: l’ISU è un parametro molto diverso dal PIL, perché registra anche la dimensione spirituale della vita, che è una crescita qualitativa, non quantitativa. Dico sempre agli invidiosi dei ricchi, che comunque ognuno di noi mangia due volte al giorno, dorme in un letto solo e guida una macchina, proprio come loro. Nessuno ha facoltà reduplicative, ubiquitarie e bilocazionali.
Variare, cambiare, rendere discontinuo il fare facendo cose nuove, invenire ciò che non si è ancora trovato, credere di potercela fare anche se la strada è in salita e richiede dolore muscolare per giungere al valico. Occorre.
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