Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

De donde se cuenta lo que sucedio recientemente al noble hidalgo y caballero andante Don Quijote de la Mancha en una ciudad de Europa

Don Chisciotte e il Gigante

In un giorno qualsiasi di quest’ultima estate, nell’ora meridiana quando il sole è più alto, la grande vettura si era fermata nella piazza della città.

Forse era Toledo o Salamanca, forse Massafra o Carcassonne, forse era Augsburg, Gubbio o Pordenone.  L’esperto del bar Sport aveva sentenziato: è un Cayenne 500 S da quattrocento cavalli. Da  0 a 100 KM/H in quattro secondi. Quattro chilometri con un litro. Il rombo che l’aveva accompagnata era stato premonitore: pareva fossero aperte le cateratte della benzina, quasi un rotolare rabbioso di pistoni e un caldo insopportabile all’intorno. Le ruote erano alte settanta centimetri e larghe trentacinque.

Messa di traverso, scura brillante, sembrava “La Macchina Nera” di spielberghiana memoria. Ne era sceso un giovanotto strafottente e un po’ trasandato, di quelli che pensano di non dover nulla a nessuno.

Fu allora che si senti sull’acciottolato della piazzetta il rumore, insolito per i tempi, dello scalpitio di un cavallo, accompagnato dal più lieve trepestio di un altro animale, e si vide subito, un asino o un mulo.

Alto, bardato di tutto punto, ieratico e altero, la corazza leggera indosso e con la picca in resta, era apparso Don Alonso Chisciano, più conosciuto con il nome che il suo biografo Don Miguel de Cervantes y Saavedra aveva consegnato alla storia, Don Chisciotte, o per meglio dire Don Quijote de la Mancha, Hidalgo insigne e Grande de Espaňa. Appena dietro caracollava il suo servitore e scudiero, noto al popolo come Sancho Panza.

Stavano da tempo viaggiando per salvare donzelle e vedove da pericolosi pretendenti, e per aiutare i derelitti negli ardui perigli che la vita poneva loro davanti. Avevano affrontato giganti immani, e feroci briganti agli angoli delle strade, dove erano in agguato nella penombra.

Ora i due si trovavano di passaggio per quella città.

Quando Don Chisciotte vide quel grande oggetto nero su quattro ruote, esclamò: “Mio buon scudiero, siamo di nuovo chiamati ad affrontare un grande periglio. Non vedono forse i tuoi occhi valorosi un nero gigante in agguato? Non sentono forse le tue narici il puzzo degli effluvi mefitici che esso emana? Vedi, mio buon Sancho! La nostra vita è per questo, dobbiamo esporci a ogni rischio per l’onore della Spagna”.

Sancho, un poco interdetto, non capì la filippica del suo padrone e signore.

Si limitò ad annuire e, sceso dal mulo, che impastoiò rapidamente vicino a un negozio, dette una mano a Don Chisciotte, che pure desiderava scendere dal suo nobile destriero, chiamato, com’è noto nei cinque continenti, Ronzinante.

Il portamento dell’Hidalgo era superbo, ma non della superbia viziosa di chi si sente superiore a ogni altri, quell’albagia che ristagna negli occhi dei prepotenti, quando marcano il territorio, con parole, atti o simboli. Egli era fiero di una nobiltà che gli apparteneva nel cuore e si rifletteva nel portamento.

Il Nobile della Mancha, sgranchitosi dopo la lunga cavalcata, si era portato vicino al Suv, commentando: “E’ un grosso gigante dormiente, Sancho, dovremo intervenire non  appena si sarà svegliato, o quando sarà necessario”.

Con gesti tranquilli, poi, si era seduto sul sagrato della vicina Collegiata, e aveva condiviso del pane e fichi con il suo buon scudiero. Si erano poi dissetati alla fontana di acqua fresca che borbottava in un angolo della piazza.

A un certo punto Don Chisciotte, che non aveva mai perso di vista il Gigante-Suv, notò un crocchio che si stava formando intorno, dove un tale gesticolava più degli altri, come stesse spiegando qualcosa di importante e dovesse così aiutarsi con i gesti.

L’Hidalgo percepiva, qua e là, qualche parola. “…con questa … lasci sul posto … te ne freghi … parcheggi dove vuoi … quei pirla delle utilitarie … se ti presenti con questa sei … tutto a posto…”, e altri borbottii dello stesso tenore.

Allora Don Chisciotte sollecitò Sancho: “Andiamo mio buon scudiero, ché dobbiamo fare giustizia di tanta protervia. Quell’uomo dice che con il gigante può convincere chiunque, spaventandolo, che lui ha sempre ragione. Andiamo a fargli capire che questo non è onorevole”.

I due si avvicinarono al gruppetto e Don Chisciotte apostrofò lo stupito e orgoglioso proprietario del Suv: “Voi, che credete di poter fare ogni soperchieria, perché avete al guinzaglio quell’orrido essere, quel mostro nero come la pece, venuto dal più profondo degli inferni, voi, sì, dico a voi, state in guardia, perché se io e il mio valoroso scudiero vi troveremo sulla nostra strada, vi avverto, assaggerete la durezza della punta delle nostre picche!”.

E, girati i tacchi, l’Hidalgo se ne tornò verso la scalinata per finire il suo pane e fichi.

La  risata dei quattro cinque perditempo fu fragorosa, e tutto finì lì, per il momento.

La strada per la prossima città era lunga, il caldo sole di piena estate faceva ansimare Ronzinante e il mulo.

Don Chisciotte era immerso nei suoi profondi pensieri di giustizia, e forse anche nei ricordi della sua Dulcinea, che aveva lasciato nel Toboso, per adempiere ai suoi alti doveri.

Un frinir di cicale accompagnava il lento ma continuo procedere delle bestie.

Ad un tratto, da lontano, si levò una nuvola di polvere, sulla loro stessa strada. Sancho avvertì il padrone e Don Chisciotte si rese conto che quel gigante nero si stava avvicinando a velocità preoccupante. Si limitò a porsi sul ciglio della strada e attese. Quando l’auto fu a meno di cento metri da loro, pose la picca in resta, e ordinò a Ronzinante di caricare. Il vecchio fedele destriero abbozzò un passo di carica, ma poi desistette caracollando verso l’erba del ciglio della strada. Il Suv li oltrepassò come un lampo, con l’autista incredulo che continuava a guardare e a ridacchiare, la testa girata verso i due.

Alla curva successiva il Suv, che era un Gigante, capitombolò nella spoglia brughiera.

Fece innumerevoli rotazioni su di sé e poi si fermò in una nuvola di polvere. Nel frattempo i due cavalieri avevano ripreso il cammino e si erano avvicinati al luogo dell’incidente. L’autista del Gigante era seduto nell’erba secca, pesto e sanguinante, ma vivo. Belava: “aiuto, aiuto”.

L’Hidalgo, senza indugiare, ordinò allo scudiero di trarre dalla sacca le bende e l’olio d’aloe per curare il ferito, che li guardava attonito.

Finita l’incombenza Don Chisciotte e Sancho risalirono sulle loro cavalcature e sparirono all’orizzonte. Il sole stava finalmente tramontando, e due ombre, di cui una più lunga, si stagliavano nella sera, lente nel loro incedere, ma sicure, inesorabilmente dirette verso nuove avventure.

Un uccello notturno li salutò quando entrarono nella città turrita, e la ronda, che aveva riconosciuto l’Hidalgo, li salutò con rispetto incrociando le alabarde.

 

 

 

 

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