L’oscurità come nascondimento dell’essere, il nulla e il divenire
Caro lettore che transiti per questi paraggi del web, che è o non-è, è qualcosa o simulacro del nulla (?), abbi pazienza, ché debbo intrattenerti un poco questo meriggio d’estate su trasparenze e pensieri e turbamenti,
l’eterna diatriba tra chi pensa che l’essere sia qualcosa, e chi pensa esistano solo gli enti come participio presente del verbo stesso, e che l’essere si debba usare solo come verbo coniugabile nei vari tempi e modi, data da duemilacinquecento anni nel nostro Occidente. Oggi ne ho scoperto un altro, Alfonso Berardinelli (cf. Sole 24 Ore della Domenica, 33), critico letterario e saggista, affannato a mostrare come Emanuele Severino sia talmente presuntuoso da far pensare che “nessun altro abbia possibilità di esistere (al di fuori di lui, ndr)”. Dai, come si fa ad arrivare a questa conclusione?
Si fa si fa, soprattutto se di un autore si propongono le idee tacendone le premesse teoretiche. Ad esempio, si può perfino mettere in ridicolo Tommaso d’Aquino e le sue cinque prove cosmologico-metafisiche dell’esistenza di Dio, se si trascura di dire che esse, per san Tommaso stesso, non avrebbero mai potuto sostituire l’atto di fede, come adesione del cuore e dell’intelligenza alla credenza in un’Intelligenza suprema chiamata Dio. Altrettanto si può ironizzare su Anselmo d’Aosta e la sua prova ontologica (Deus est id quo magis cogitari nequit), se si trascura di dire che il vescovo di Canterbury premetteva la possibilità che la mente umana sia in qualche misterioso modo partecipe dell’intelligenza divina. O deridere Averroè e Meister Eckhart. Forse il Berardinelli lo farà in una prossima articolessa.
Oggi se la prende con Severino, che accusa di astrattezza e di circolismo vizioso. Lo accusa di essere un seguace di Parmenide di Elea fuori tempo massimo. Invocando a supporto della sua teoria Bertrand Russell e Andrea Mori che ha scritto il saggio Breve storia del verbo essere (Adelphi), e definendosi razionalista empirico, il nostro sostiene che è inutile pensare all’essere come concetto incondizionato, non declinato, non legato all’esistenza delle cose, perché sarebbe come pensare al nulla. Supportandosi anche con Max Horkheimer (dove sta scritto?) il nostro saggista si muove tra un’asserzione (non citata) di Severino, ad esempio “che il divenire non è“, e sue interpretazioni del nuovo libro del filosofo veneziano Intorno al senso del nulla (Adelphi, Milano 2013), che io non ho letto, ma lui sì, si vede.
In realtà Severino, e anche qualche suo non pedissequo successore, afferma non tanto l’inesistenza del divenire, ma il suo muoversi come un comparire e uno scomparire dell’essere. Pensatori come il Bontadini e come il padre Barzaghi si sono su questo tema meritoriamente affaticati, e con profondissime riflessioni. Io stesso ho cercato di trovare un modo (cf. La sapienza del koala, 2012) per dire la possibilità che tutto-ciò-che-è non sia un rotolare di forme verso l’infinito futuro, ma possa essere pensato come un transitare da e verso, di cose ed enti intelligenti pensabili sub specie aeternitatis, o presenti contemporaneamente in mente Dei. Certo, questo pensiero presuppone Dio, ma chi si può permettere di recisamente negarlo, perché non appartiene alle condizioni di possibilità di una ricerca empirico-razionalista (come fa ad esempio, presuntuosamente, Margherita Hack)? Se non si può affermare che “Dio esiste” sotto il profilo razionale, non si può neanche affermare, sotto il medesimo profilo che “Dio non esiste“. O no?
Ancora sul nostro “contra Severinum” (parafraso qui il mio amato Origene che scrisse un “contra Celsum“). Scrive “più di duecento pagine per parlare del nulla“, in qualche modo rimproverando a Severino una sorta di perdita di tempo ed energie, e sottolineando come il filosofo abbia scritto decine di libri per ripetere sempre la stessa cosa, “spiegandosi, parafrasandosi, autocommentandosi, e appunto, ripetendosi“.
Estrapola dal contesto una frase di Severino dal libro citato: “La struttura originaria del destino della verità è l’apparire del senso autentico dell’impossibilità che ciò che è sia il proprio altro e quindi non sia (p. 108)”. E si straccia le vesti, il Berardinelli. Ma allora lasci perdere se fa fatica. Certamente le cose si possono scrivere anche in modo diverso, per dire che la verità della realtà si deve declinare nella libera ricerca, che spiega come l’essere non possa nel contempo essere se stesso e il suo contrario, nell’umile attenzione che non confonde certezza e verità, ma cerca la verità nella libertà (cf. in Cornelio Fabro, Riflessioni sulla libertà, Edivi, Segni, 2004, 83.126 ).
Infine Severino è rimproverato dal nostro di non aver mai fatto comparire nei suoi libri “un’esperienza comune, una situazione morale, un’esperienza storica, un oggetto concreto (a parte una lampada)”. E allora? Se chi pensa le cose e il loro essere come una condizione di possibilità del manifestarsi eterno dell’essere (che io non scrivo in maiuscolo perché non lo confondo con Dio), non ha bisogno di fare molti esempi, ma rigorizza i termini anche a costo di risultare oscuro. L’oscurità spesso nasconde quei filamenti di verità sfuggenti ai “cartesiani” che hanno letto Cartesio solo nei riassunti delle scuole superiori, e pure Aristotele, sempre sugli stessi manuali.
Altrove in questo sito abbiamo parlato dell’essere e del nulla (Sartre!), ammettendo la possibilità di pensare l’una e l’altra dimensione esistenziale ed ontologica (non ontica, caro Berardinelli), ricevendo anche interessanti chiose, e ne parleremo ancora. Severino non è ossessionato dal nichilismo occidentale, ma cerca di riflettere su ciò che la ragione offre per cercare di comprendere l’infinito scorrere della vita sotto uno sguardo che ne sappia cogliere l’essenza.
Perché le persone non fanno il loro mestiere, perché il ciabattino non fa il ciabattino (cf. il detto tommasiano sutor ne ultra crepidas, cioè ciabattino non oltre le tue scarpe), l’ingegnere l’ingegnere, il medico il medico, il saggista letterario il saggista letterario, l’astrofisico l’astrofisico, il tornitore il tornitore (anzi questo lo fa) e il filosofo il filosofo? Perché molti parlano di tutto con il piglio saccente dell’esperto, essendo solo orecchianti?
Presuntuosi orecchianti?
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3 Comments
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Succede spesso. E’ convinzione comune a molti giornalisti di ogni settore di poter parlare di tutto con competenza. Basta accendere la TV…
Non condivido le idee di Severino ma non mi permetterei mai di criticarlo in quel modo così presuntuoso. Chi non è filosofo e non si occupa di certi argomenti dovrebbe lasciar perdere l’ironia e avere un atteggiamento più umile e rispettoso e meno aggressivo. Dovrebbe criticare e porre domande con rispetto e umiltà senza avere la pretesa di conoscere argomenti sui quali non possiede un’adeguata conoscenza. Come detto…ad ognuno il proprio mestiere.
Caro Gianni,
non ho assolutamente capito il senso del Suo scritto. Se Lei legge bene, io non me la prendo assolutamente con il prof. Severino, da me molto stimato e di cui condivido anche alcune teorie, cioè visioni (che, come Lei sa, è termine sinonimico). Quello che cerco di dire nel mio pezzo è piuttosto a difesa del Prof. Severino e di critica a Belardinelli. Per quanto concerne la mia preparazione filosofica, La rassicuro: ho conseguito nella mia vita gli stessi titoli accademici del docente citato, svolgo attività di docenza a livello universitario, ho scritto una dozzina di volumi di cui metà di carattere filosofico, ne ho curato una quindicina, e sono un filosofo consulente riconosciuto dal MIUR; dal 2012 al 2014 sono stato Vicepresidente dei consulenti filosofici italiani, buona giornata
renato