Crisi economica: decrescita e nuovi stili di vita
Conferenza del 8 Giugno al Congresso Nazionale di FederUni – Codroipo
Il mio orientamento è quello di cercare i fondamenti, i significati, non solo dei termini, dei concetti, ma soprattutto di individuare il senso di ciò che ci diciamo. L’impostazione di questa relazione è socio-politica, ma ha delle fondazioni dicarattere filosofico. Abbiamo sentito parlare in modo molto articolato di Pil, di Isu, di acronimi che ci spiegano e di come l’economia si sia sviluppata nella società internazionale e globalizzata di questi ultimi decenni.
Quando diciamo “crisi”, intendiamo qualcosa di negativo. Zygmunt Bauman, un filosofo polacco, ma forse più sociologo, pluripremiato e plurimediatizzato, ha sdoganato un termine molto discutibile: tutto ciò che è accaduto negli ultimi decenni ha provocato una situazione così complessa da permetterci di dire che la società si è liquefatta e tutto sta diventando indifferenziato. Come sempre, dalla riflessione, anche di pensatori molto seri, la stampa, o il sistema mass-mediatico, va in qualche modo a prendere dei sintagmi, dei concetti, delle piccole frasi potenti che colpiscano e che spesso sono fuorvianti. In realtà lui parla in un altro libro anche di “amore liquido”: in sostanza, secondo Bauman, tutto si sta liquefacendo, e in questo fenomeno fisico-sociale, si stanno smantellando anche i tradizionali ruoli sociali (genitori-figli, padroni-dipendenti, allievi-insegnanti e così via, ma noi andiamo cauti!).
Cercare il senso delle parole
Il presidente francese Hollande ha fatto passare una riforma del diritto di famiglia basato sul politically correct. Da un punto di vista terminologico, ha tolto il lessico classico che definisce madre, figlio, padre per sostituirlo, a mio avviso, in modo meccanicistico con una formula che accontenta tutti. Improvvido calcolo politico o solo improntitudine cognitiva e scetticismo oltre ogni limite? Ovvero mancanza di rispetto per il linguaggio e la sua storia, che è tutt’uno con la storia umana? Stiamo mettendo in discussione il nome del padre e della madre, ma mater + munus indica il “matrimonio”, ovvero “l’ufficio della madre”, mentre pater + munus significa “patrimonio” ed è inteso come il dovere del padre a provvedere al sostentamento della famiglia. Si mettono in questione dei termini fondamentali che appartengono all’etimologia e alla storia e che sono tutt’uno con i nostri genomi significanti e spirituali per sostituirli con termini come “genitore1” e “genitore2”, mentre marito e moglie si chiamerebbero “sposi”, per cui questi potrebbero essere chiunque.
Ritengo che oggi la più grave crisi che stiamo vivendo sia quella del pensiero, proprio quello della facoltà logico-argomentativa elementare. Forse le cose sono un po’ più complesse, e quindi occorre proprio riprendere a pensare declinando la riflessione argomentante, per cercare un senso plausibile delle parole con cui definiamo le cose: ad esempio, l’Italia sta diventando un “Paese povero” o un “povero Paese”? Stiamo vivendo una catastrofe o un’apocalisse? I giornalisti usano spesso un’altra parola: quando devono dire che qualcuno è in difficoltà dicono “bufera su” e aggiungono il nome del politico interessato (Berlusconi, Letta, Epifani…). C’è un impoverimento lessicale, che significa un depauperamento linguistico e del pensiero, allarmante. Qui non ho come retro-pensiero il tema degli sms utilizzati dai ragazzini, per cui si potrebbe dire che anche il pensiero espresso nella comunicazione scritta si è impoverito (ci sono degli studi, anzi, che dicono anche il contrario a proposito degli sms), ma intendo proprio il pensiero argomentante pubblico utilizzato dai pubblicisti e dai politici. In generale, potrei anticipare cosa sta per dire qualcuno della classe politica degli ultimi vent’anni prima ancora che egli si pronunci, perché ho imparato a memoria i suoi cliché, che non mutano mai. Da cinque-sei anni, poi, siamo consapevoli dell’enorme responsabilità del sistema finanziario e tutti ne parlano, compreso il presidente statunitense. Oggi fatichiamo a darci il tempo per pensare: i ritmi, la frettolosità, gli incroci e la complessità negativa in cui stiamo vivendo, hanno messo in crisi ciò che un tempo era il discorso sotto l’albero dagli avi. In definitiva, era migliore il tiglio delle vicinie piuttosto che un sistema democratico dove non posso scegliere, ad esempio, chi mandare in Parlamento perché a Roma le liste sono bloccate. Siamo arrivati ad un punto critico, in cui il cittadino, ognuno di noi, non ha la possibilità di esprimersi perché non ne ha, a volte, nemmeno l’occasione e le energie necessarie.
La fragilità umana è male senza rimedio (cfr. Paolo, Ia Corinzi)? E ancora, possiamo conoscere qualche frammento di verità o è tutto semplice opinione (ha ragione Protagora o Socrate?)? C’è un’esigenza vitale di rischiaramento concettuale, premessa per la ripartenza di un discorso etico.
Il bene comune: bisogna puntare allora su un equilibrio dei diritti e dei doveri per il bene comune delle persone, delle famiglie e del Paese-Stato-nazione, un bene comune sempre più a rischio per un welfare che deve fare i conti con numeri crescenti di disoccupati, workin’ poors, di separazioni e padri impoveriti, di suicidi per ragioni economiche, di famiglie numerose soprattutto al Sud. Ma anche qui da noi al Nord il fenomeno sta diventando preoccupante.
C’è un rischio di declino perché vi è una redistribuzione del lavoro nel mondo, specie del manifatturiero, e c’è una stretta connessione tra operazioni finanziarie, economiche ed industriali[1]. Vi è, inoltre, una riduzione del Pil e dei consumi interni, ma non è generalizzabile, è puntiforme. Ci dimentichiamo, ad esempio che l’Italia non è solo il Paese del patrimonio artistico-ambientale più importante del mondo, della densità culturale dei luoghi (M. Magatti, 2012) il Paese degli Armani e dei Dolce&Gabbana, ma è anche il secondo Paese manifatturiero d’Europa (dopola Germania), e il primo per le meccaniche di precisione e le tecnologie avanzate, sopravanzando le orgogliosissime e spocchiose Francia e Gran Bretagna, che ci danno sempre lezioni di vita.
Rischiamo di fermarci su ciò che ci convince, sulle sicurezze (Pil), e temiamo ciò che non conosciamo, il cambiamento. Il nostro pensiero è condizionato, ma non dobbiamo temere il cambiamento, le discontinuità, perfino una certa dose di precarietà. All’interno di alcune grandi aziende che seguo, respiro una disponibilità concreta ad accettare il rischio, anche da parte dei lavoratori, che non era presente qualche anno fa[2].
Cogliere i “segni dei tempi”
Lo spirito di questo intervento, nonostante l’obbligatoria genericità di certe considerazioni, vuole essere molto concreto e cerca di dare dei suggerimenti nel locale in quanto dobbiamo agire a questo livello, dopo aver pensato globalmente. Inviterei a rileggere con cura la Populorum progressio di Paolo VI (1967), una enciclica profetica, nel senso etimologico del termine, che ha preconizzato dove stava andando il mondo. Assieme alla Populorum progressio, andrebbe letta anche la Caritas in veritate di Benedetto XVI (2007). Non sto facendo un discorso confessionale, ma culturale. Dobbiamo cogliere i segni dei tempi, questi segnali deboli che, però, sono espressivi e sono forti nella loro debolezza. Qui sottolineo un altro elemento importante di questo nostro momento critico: un segno dei tempi, per me formidabile, è quello della sostituzione della comunicazione[3] alla relazione, mentre invece dovrebbe far parte di un circolo virtuoso che parte dalla relazione e usa la comunicazione. Se non ho una buona relazione all’inizio, ovvero qualcuno non mi è simpatico, non significa che non posso comunicare in quanto posso farlo correttamente, e questo comunicare mi può aiutare a fondare una relazione, usando soprattutto lo strumento del dialogo, strumento che attualmente è venuto meno.
La relazione, il dialogo, la comunicazione
Quanto dialogo c’è oggi? Quanto è invece un parlare tra sordi? È sufficiente guardare i talk-show nei quali è raro che non vi sia un “parlarsi sopra” (Giovanni Floris). Dialogo è parola che attraversa, parola che confligge, non è colloquio buonista: non sono d’accordo con te prima di essermi messo d’accordo con te, sempre che ci riesca, e intanto mi baso sui miei valori e sulle mie idee, e mi confronto con le tue idee con umiltà.
È in questo ordine, infatti, che dobbiamo considerare i tre termini. Senza una relazione di qualità non vi è dialogo vero tra le persone e la comunicazione è una mera tecnica, fredda e spiritualmente muta, addirittura pericolosa. E… ora vi racconto l’apologo del “tutto bene (?)”. Da tempo sto facendo una mia umile, piccola battaglia personalissima contro il “tutto bene”. Qualche mese fa sono stato apostrofato con “tutto bene” da tre persone diverse, nello stesso pomeriggio, ed ho dato tre risposte diverse: a) prima risposta era ad un ingrato[4]; b) seconda risposta ad un laureato[5]; c) terza risposta ad una signora in età[6]. Nel nostro mondo diamo per scontato che quello che si dice, che si sente, vada bene , ma la stereotipia è un elemento di crisi e vuol dire ottusità e i neuro linguisti, oltre che i neuro scienziati, ci insegnano che più stereotipizziamo il linguaggio e più stupidi diventiamo, e ci esponiamo maggiormente al rischio della demenza.
C’è anche un “bicchiere mezzo pieno”. Abbiamo visto molte malinconie, ma anche accenni di un senso positivo del prossimo futuro… infatti molte cose oggi sono migliori di un tempo passato molto prossimo: oggi un guerriero Masai con un telefonino può comunicare meglio del presidente Ronald Reagan trent’anni fa; vi è una riduzione esponenziale della mortalità infantile, nonostante la fame e la miseria colpisca ancora un settimo dell’umanità; la scolarità si è elevata così come l’età media delle persone…, e così via.
Dalla I-economy alla We-Economy. Il passaggio prossimo deve essere quello verso un’economia della condivisione, che può permettere una conciliazione dentro le vite delle persone e quindi tra famiglia e lavoro: economia competitiva e impresa integrale; artigianato, industria, servizi, cooperazione equa…; nuovo welfare e “beni comuni” sussidiari e solidali.
Occorre lottare contro le rigidità: a) psicologico-soggettive (come paura del cambiamento e perdita della sicurezza); b) sociologiche e culturali (modelli e comportamenti individuali e familiari, gestione degli orari quotidiani nel rapporto famiglia-lavoro, ecc.) e c) normativo-organizzative (legislazione sociale, previdenziale, assistenziale da un lato e legislazione lavoristica e modelli organizzativi aziendali dall’altro) senza modelli precostituiti come la Spillover Theory o la Compensation Theory o la Segmentation Theory o la Instrumental Theory o infine la Conflict Theory.
Ma un bilancio vita-studio-lavoro equilibrato e creativo. Bene relazionale intrinseco (P. Donati, 2005).
Ambiti critici
Ho cercato di individuare tre ambiti critici su cui occorrerebbe provare a pensare come modificarli. Da un lato, quindi, c’è l’aspetto economico-quantitativo, ma dall’altro c’è l’aspetto economico-sociale, della convivenza e della relazionalità, qualitativo, quindi i modelli vecchi, anche di carattere giuridico e contrattuale, devono essere ripensati e rivisti. Il primo testo in cui si parli di sussidiarietà risale al 1931 ed è stato scritto da Pio XI (Quadragesimo anno). Per mia curiosità, sono andato a cercare questo tema nei testi del socialismo democratico classico dei primi decenni del Novecento (Filippo Turati, Leonida Bissolati…) ed ho trovato qualche timido accenno in un lontano discorso del 1912 di F. Turati, che però non parlava di sussidiarietà ma faceva riferimento alla fraternità. La politica della dottrina sociale della Chiesa, inoltre, è uno dei due pilastri fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana. Nella tradizione, nella letteratura e nel diritto italiani alcune cose sono già presenti, vanno solo recuperate. Vi sono molti studi sul modello sociale, familiare e lavorativo ma questi rimangono, pur essendo molto interessanti, rimangono in ambito accademico.
Nella pratica, nella politica, comunque, si devono dire cose molto più semplici e quando pensiamo che il lavoro sia sinonimo di impiego, ci sbagliamo clamorosamente: work non è solo employment, anche se è vero che vi è la necessità di un reddito che derivi dal nostro lavoro.[7] Il modello “industrialista” della corrispondenza tra lavoro e impiego non basta più (cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 2007). Occorre considerare i concetti nella loro autonomia semantica, fatto che produce conseguenze molto importanti, sia per e nelle famiglie sia nei contesti lavorativi esterni. Il lavoro non retribuito è lavoro? Ha la stessa dignità di quello retribuito? Si può fare un mix tra lavoro retribuito e non retribuito?[8]
L’abbondanza frugale: un ossimoro mutuato da Serge Latouche qui ci è utile per riflettere sul nostro tema. Tommaso d’Aquino e Ivan Illich l’hanno chiamata austerità, ma potremmo anche dirla semplicemente ragionevole sobrietà, che non significa pauperismo o elogio dell’indigenza… ma valorizzazione dei beni, tra i quali la famiglia e il lavoro, se declinati insieme sono tra i principali, e riprendere un percorso di philia (Aristotele), di amicizia solidale tra le persone consapevoli della loro interdipendenza e del loro limite.
La politica può e deve mettere all’ordine del giorno, sotto il profilo fiscale e dei redditi familiari, sulle tracce virtuose di Francia (si confronti il trend di una significativa ripresa demografica delle donne francesi negli ultimi dieci-quindici anni!) e Germania, il cosiddetto “quoziente familiare”, che darebbe risposte significative ai redditi di base; occorre completare una riforma pensionistica che tenga conto dell’invecchiamento della popolazione, selezionare meglio l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, allargandone la platea e nel contempo riducendone i garantismi, ridurre il cuneo fiscale per imprese e lavoratori, etc..
Le “forze sociali” possono pattuire normative più flessibili sugli orari (tempi parziali, job sharing, slittamenti, turnistiche articolate, ecc.), come già si è mostrato possibile in alcuni casi realizzati anche nel Nord-Est, e conosciuti-vissuti da chi vi parla; occorre sviluppare il modello dell’etica d’impresa (ex D.Lgs. 231/2001), dei codici etici e della responsabilità sociale d’impresa, coinvolgendo direttamente i lavoratori (e i sindacati, quelli e se ci stanno); occorre impostare modelli di “Balance score-card”, cioè di bilancio propositivo, in modo da coinvolgere i lavoratori stessi nei progetti di riorganizzazione dei modi i lavorare (anche di ciò esistono esempi conosciuti praticati da chi scrive, come il coinvolgimento di cooperative di animatori per tenere i bambini nei sabati lavorativi delle mamme…), etc. I lavoratori non si rappresentano più perché sono scolarizzati e spesso non si sentono importanti, ma nel lavoro è rilevante sentirsi protagonisti, anche se tale lavoro è semplice.
Ruolo delle strutture operative flessibili
In tutto quanto detto sul “terzo settore” si può inserire con le sue strutture operative flessibili, ma a patto di non pretendere di rappresentare una specie di “mondo perfetto” ispirato a una visione etica superiore, come spesso accade di intuire dalla comunicazione retorica che lo promuove: in realtà il terzo settore ha caratteristiche di flessibilità e di applicabilità molto vaste, sempre che non pretenda di potersi sostituire in toto alle altre strutture socio-economiche pubbliche e private. L’Università della terza età è parte integrante del terzo settore!
Non dunque liquefazione totale dei ruoli, bensì aggiornamento linguistico-espressivo. Il ’68 e i decenni successivi non sono passati invano nelle positività che hanno apportato, ma hanno anche contribuito alla confusione concettuale e valoriale odierna, per cui occorre riprendere da alcuni fondamenti che sono antropologicamente imprescindibili, se non si vuole finire nelle peste di un’entropia cognitiva senza sbocchi (dicesi “nei casini”)[9].
E infine: tolleranza o rispetto? Nel titolo di questo incontro vi è il termine “rispetto”, che significa etimologicamente “riconoscere nell’altro un interlocutore” (dal verbo latino respicio, guardo attentamente). Si tratta di un termine un poco desueto, sostituito in gran parte negli ultimi anni dal termine “tolleranza”: mi piacerebbe che gli amanti del politicamente corretto, politici, giornalisti e talk shower (tipo l’ambiguo e sfuggente Fazio o il parlante-sopra Floris, o l’immarcescibile Vespa) si rendessero conto di quanto “tolleranza” significhi implicito senso di superiorità, abbassamento al livello dell’altro. Mettiamo in mora la televisione come maestra di pensiero!
Tolleranza è uno degli stereotipi che la cultura socio-politica di questi ultimi decenni ha spinto molto. Perché, pian piano, non la sostituiamo con il termine rispetto? Tolleranza ha sempre avuto un che di “complesso di superiorità”: ti tollero perché sono magnanimo[10], mentre ti rispetto se ti guardo negli occhi.
Costruire “comunità di destino”… Famiglie e imprese possono essere od diventare “comunità di destino” (E. Borgna, 2012), aiutando l’uomo a superare l’insicurezza del vivere e la fragilità soggettiva. Occorre costruire ponti e sim-boli tra le varie dimensioni del vivere. Occorre riprendere pazientemente il discorso che scorre e richiede tempo per ascoltare, prima di parlare
A Codroipo è nato un caffè filosofico, promosso dall’Università della terza età, per cui una volta al mese un gruppo di persone si riunisce su un tema, dove non c’è alcun maestro di pensiero che riferisce come stanno le cose, per discuterlo. Nell’ultimo incontro si è discusso di comunicazione versus relazione, la prossima volta si discuterà di rappresentanza e partecipazione, un tema unico attorno cui passare due ore. A mio parere, anche attraverso l’iniziativa locale, la buona volontà e l’esser-ci qui, dove si vive, con chi si conosce, dentro la comunità locale, si riesce a portare un contributo di cambiamento. Se ogni singolo cittadino porta il proprio contributo, egli è in grado di sviluppare la soglia critica e l’intelligenza personale, ossia la capacità di interpretare, comprendere e poi agire con ragionevolezza.
[1] Per professione vivo nel mondo delle grandi imprese e recentemente mi è capitato di andare a Napoli e offrire cento posti di lavoro, che sono stati rifiutati perché queste persone preferiscono stare in cassa integrazione.
[2] Il mondo sindacale, invece, è arretrato, anche dal punto di vista culturale, e fa molta fatica a capire l’esigenza del cambiamento. Nel 2003 Cofferati portò migliaia di persone in piazza S. Giovanni in difesa dell’articolo 18, che chiamava “diritto indisponibile”, ma prima di discutere di diritti storicamente dati, di diritto positivo, di diritto sindacale, è necessario prima rigorizzare ciò che intendiamo. L’articolo 18, che è parte dell’attuale rigidità, non è un diritto indisponibile, è un diritto storicamente dato, nato il 20 maggio 1970 con lo statuto dei diritti dei lavoratori ed è unico al mondo. Ho esperienza anche di diritto del lavoro tedesco e posso assicurare che i lavoratori sono altrettanto tutelati, anche senza sono privi di questo sacralizzato articolo 18.
[3] A coloro che intendono fare Scienze della comunicazione, suggerisco l’iscrizione a Filosofia, Sociologia o Psicologia perché in queste facoltà si può trovare tutto ciò che si vuole in termini di discipline e di curriculum che aiutano a prepararsi per poi lavorare nel campo della comunicazione (giornalismo, risorse umane…).
[4] La risposta all’ingrato è stata: “E a te cosa importa?”, perché quel giovane aveva trovato lavoro grazie a un mio impegno, dopo aver fatto un anno da disoccupato, ma quando ha trovato lavoro non è riuscito, in sei mesi, a farmi una telefonata per ringraziarmi o per offrirmi qualcosa un bicchiere.
[5] Un bocconiano trentenne, molto “figo”, il quale mi fa: “Tutto bene, dottore?”. La risposta: “Mah! No, perché sarebbe noioso”. Il bocconiano è rimasto spiazzato.
[6] Una signora di Codroipo la quale mi ha chiesto “Tutto bene?” con il cuore. La mia risposta: “Lei mi ha illuminato la serata, signora!”.
[7] Il lavoro è una dimensione esistenziale importante, però è lavoro anche quello degli avvocati che non si dedicano più al potente di turno, che può pagare, ma possono anche fare delle assistenze gratuite; è lavoro, che possiamo laicamente chiamare “carità intellettuale”, anche quello che si fa nelle Università della terza età in quanto non è semplice organizzare un congresso annuale come questo.
[8] Nell’ambito del mio lavoro retribuito posso fare altre cose non retribuite. Ad esempio, quando c’è un imprenditore che ha una problematica personale, individuale o familiare, che richiede un intervento di carattere dialogico, mi presto, senza sentirmi un eroe, a questa attività che non fatturo. La consulenza filosofica, che non è psicoterapia, è ascolto, dialogo, e sono molto contento di spendere delle ore gratuitamente. Sela Chiesa locale mi chiede un contributo per una ricerca, lo faccio molto volentieri perché per mela Chiesa è, prima di tutto, il popolo di Dio.
[9] Oggi gli insegnanti hanno difficoltà a giudicare i loro allievi perché spesso si ritrovano i genitori contro. Non si parla più di poter dare uno schiaffo ad un adolescente, cosa che non si può fare assolutamente, ma noto che vi è stupore quando si comprende che la struttura di persona dice che siamo tutti uguali, ma la struttura di personalità dice che siamo tutti irriducibilmente diversi, anche per ruolo, per cui il professore rimane superiore. Dire che il professore è diverso dall’allievo, oppure si deve continuare a dire che si è tutti uguali e gli allievi possono darti la schiena oppure possono usare il cellulare mentre si sta facendo lezione?
[10] La magnanimità è una virtù classica.
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