Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Ambiguità e Compromesso

Due parole che non godono di buona fama. Vediamo perché le cose non stanno proprio così, o comunque possono stare anche in un altro modo.

Diamo prima uno sguardo al termine “compromesso“: letteralmente è dal latino “cum-promittere“, vale a dire “promettere con“, “promettere insieme“. E’ un significato brutto, negativo? Non mi par proprio. Quante volte nella vita o sul lavoro è necessario fare un compromesso: tutta la dottrina e la pratica contrattualistica si basa sul compromesso, su una negoziazione che porta necessariamente a un compromesso. Si dice che il migliore accordo tra due controparti sia sempre quello che fa alzare dal tavolo tutte e due un po’ scontente.

Il compromesso può apparire negativo solo ai duri e puri di ogni risma, quelli che Origene chiamava perfecti, gnostici per tutte le stagioni sul genere “Vendola”, e non esaltava, perché sapeva bene che ogni anima deve esercitarsi, deve essere incipiens (principiante) e poi proficiens (che avanza), prima di accedere ad una ossimorica imperfetta perfezione, totalmente umana. Invece i perfecti sono quelli che non sbagliano mai, che parlano come un libro stampato, come quell’idealtipo weberiano che ho inquadrato nel post precedente in quanto buono ma falso.

Costoro non si com-promettono mai, perché sono giusti, onesti, perfetti, e dunque per loro il compromesso è una cosa brutta, mediocre, poco nobile, inadeguata ad alti spiriti.

Ambiguità” è un altro termine che viene guardato con sospetto. E invece è l’ambiente, la rappresentazione di quasi ogni pensiero e azione umana. Ambiguo è necessariamente ogni passo che compiamo, in quanto non mai pre-definito nella sua totalità attuale e potenziale: qualcosa può sempre sfuggire, una strada può inopinatamente cambiare, una decisione pure, un giudizio. Pensiamo a quanto sono ambigue, poco chiare, in bilico tra giustizia e ingiustizia molte sentenze civili e penali di cui abbiamo notizia. Eppure, qualche de/cisione (cioè “taglio”) dobbiamo prendere, e perciò stesso siamo ambigui, ambivalenti, quantomeno nel nostro intimo pensare, anche se e quando de/cidiamo. Se andiamo da una parte facciamo bene, ma non del tutto, se andiamo dall’altra, facciamo male, ma non del tutto. In bilico, ondeggiando tra ciò che noi pensiamo bene o male, giusto o ingiusto, opportuno o inopportuno, e via dubitando…

In filosofia esiste addirittura il verbo “disambiguare“, intendendo un “fare chiarezza” (per quanto possibile), mentre in ambito critico-letterario l’ambiguità si può intendere addirittura come polisemia, cioè termine con una pluralità di significati e di possibilità di dare senso.

La stessa teologia morale cattolica classica prevede che non si debba/possa esprimere un giudizio nettamente di condanna o lode per le azioni umane.

Infatti, la teoria applicata con il Sacramento della Penitenza prevede addirittura non meno di sei possibilità, dalla più rigorista alla più blanda, conoscendo bene l’animo umano, l’uomo, con le sue contraddizioni e, dunque, ambiguità.

Si passa dal rigorismo rigido (tutiorismo), a quello moderato, per transitare a ciò che è più probabile (ut in pluribus, così come nella maggior parte dei casi), e poi a ciò che detta l’azione umana nel dubbio, come sosteneva Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (in dubio melius est dicere pro reo, nel dubbio è meglio sostenere l’imputato); fino ad arrivare a un certo lassismo, evitando di giudicare. Un percorso talvolta contradditorio e pieno, appunto, di ambiguità, come spesso è molta parte del nostro agire quotidiano. Ma come possiamo pretendere che ogni nostro pensiero e ogni nostra azione sia priva di ambiguità, sia sempre chiara e distinta (come le idee cartesiane) da non lasciarci mai il dubbio di non avere capito, di sbagliare o di giudicare male?

Che dire? Che l’umano agire è talmente complesso e coinvolto in mille e mille tormenti e cinconvoluzioni e locuzioni, al punto da lasciare attoniti.

Il Maestro invitava a non giudicare per non essere giudicati. Aggiungo: e ad avere compassione e pietas per l’ambiguità che illumina la nostra meravigliosa miseria di uomini. Sì meravigliosa, come tutto ciò che è ricerca della verità su di sé medesimi.

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