“El cielo no tiene frontera”
Sta scritto su un cippo di pietra a Topolò, ai confini.
Girovagando nelle fenditure e negli interstizi di ciò-che-appare-all’esistenza, e che molti ritengono sia solo quella-cosa-lì, mentre altri ritengono sia la manifestazione di una realtà più profonda, l’essere, appunto, io penso.
Sono un “io-che-pensa” un essere-che-sta nel divenire di ogni cosa, Parmenide vs. Eraclito forever. Ma con-presenti.
Girovagando per paesi delle “Terre di Mezzo” mi fermo nei cimiteri, silenti ombre degli alberi, foglie mosse da intermittenti raffiche di tarda estate. Cammino lento tra le lapidi leggendo nomi, date ed epigrafi. La mia non l’ho ancora trovata.
Tiepido girovagare dei pensieri. E trepido.
Forse avrei dovuto andare a Atene in questi giorni, al festival internazionale della Filosofia, ma son rimasto sotto questi cieli altissimi della landa di confine, nelle Terre di Mezzo, dove scorrono acque. Meglio.
Sono rimasto a cercare sotto l’inarrivabile asintoto dell’essere, inquieto, e nel contempo fiducioso.
Fiducioso nella possibilità che quest’uomo, io, tu, noi, possiamo comprendere in qualche modo e misura noi stessi e il mondo, come datità ragionevoli. Le nostre paure, le nostre contraddizioni, e perfino le rare illuminazioni.
Come parte di un più grande tutto che ci ricomprende ignaro, mentre noi non lo siamo.
Qualcuno sostiene che anche la coscienza, l’auto-coscienza non può darsi. Ma non mi par vero: potrebbe valere per le oche di Lorenz, non per noi.
Cerco nel mio peregrinare dove il mithos il pàthos e il lògos si incontrano, come acque sversanti impetuose a formare il fiume imponente e verde della Risorgiva: non vi è lògos senza pàthos e senza mithos.
Non si comprende nulla se non si soffre e se non si crede.
Alla fine è il mito che ci insegna come funzionano la vita, la mente e il cuore, così come si dice che (Genesi 1, 27) si è fatti a Sua immagine.
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