Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Enèrgheia kaì dýnamis

Aristotele insegna (Met.IX, 6, 1048b e ss.) che la materia è potenza (dynamis), e la  forma è atto (enèrgheia).

La potenza provoca un mutamento, ma l’atto viene prima della potenza, come l’adulto viene prima del bambino e la gallina prima dell’uovo, poiché il seme viene dalla pianta.

Noi sappiamo invece dalla scienza moderna che il processo è stato evolutivo, ma il concetto aristotelico conserva una sua plausibilità, poiché nel momento in cui un nuovo essere, magari animale, diventa fecondo, mette in moto uno specifico processo vitale (cfr. il concetto di incidente congelato in E. Boncinelli, Lo scimmione intelligente, 2009).

La potenza può essere attiva (il fuoco), o passiva (il legno che si infiamma).

La passività è materiale, mentre l’attività è causa efficiente.
L’atto (enérgheia) è l’esistenza stessa dell’oggetto. Alcuni atti sono movimenti (kinesis), altri atti azioni (praxeis), come movimenti che possiedono il proprio fine in se stessi: ad esempio il pensare. Il camminare è invece un movimento che ha un tèlos, un suo fine diverso, magari quello di raggiungere la cima di un monte.

L’azione perfetta che ha in sé il suo fine è detta da Aristotele atto finale o realizzazione finale (entelechia). L’atto è dunque la forma e la sostanza, mentre la materia è inconoscibile e indeterminabile (Met., VII, 10, 1036 a, 8; IX, 7, 1049 a, 27).

Cito “La materia prima è il limite negativo dell’essere come sostanza, il punto dove cessa insieme l’intelligibilità e la realtà dell’essere. Ma ciò che si chiama comunemente materia, per esempio il fuoco, l’acqua, il bronzo, non è materia prima, perché ha già in sé in atto una determinazione e quindi una forma; è materia, cioè potenza, rispetto alle forme che può assumere, mentre è già, come realtà determinata, forma e sostanza“.

Conoscere la realtà è conoscerne la sostanza mediante la specie o forma (che è appunto la sostanza delle realtà composte o sinoli), mentre la materia rappresenta il residuo irrazionale della conoscenza.

Uauh, stasera, prima di andare a nanna (ché domattina debbo alzarmi alle 4,20 per prendere un aereo verso la Bassa Italia) ripasso Aristotele, cioè “colui-che-ha-il-miglior-fine“, anche al fine di ridire a me stesso e al gentil lettore, che ogni nostro agire richiede un dispendio energetico per passare dalla potenza all’atto, quando noi siamo causa efficiente dell’agire umano libero.

La nostra fragilità, la nostra finitezza, il nostro misero stare al mondo non possono rispondere sempre, non riescono a dare soddisfazione a ogni bisogno, esigenza, richiesta, desiderio nostro e altrui, ma solo qualche volta, a intermittenza, navigando sul crinale della coscienza e dell’incoscienza.

Ma senza malizia, egoismo, calcolo.

Semplicemente vivendo la giornata, e sapendo che occorre una visione ulteriore di breve o medio periodo, e una visione di progetto, senza illuderci che ciò sia realizzabile o certo o dovuto o necessario.

Nulla di ciò che deve ancora accadere è certo, realizzabile, dovuto, necessario, ma tutto è sub iudice aeternitatis Deique vel nullius rei, si tu prefieres.

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