Di storie e geografie dell’anima, del tempo nostro e di facezie
Carsiana
Di nuovo in Carso, un anno dopo,/ con Ladi, Edward e Joze, e la cagna,/ in un pomeriggio di fine estate che affabula i canti/ e dispiega in meandri l’andirivieni delle nuvole./ La Compagnia del Confine si raduna all’ombra del fico,/ 300 metri sul mare./ A Tublje ci attende Stojan Vodopivec/ “Bevilacqua” in sloveno, in fondo/ alla Vinska Cesta./ Targhe antiche di legno di faggio/ a Kobdilj e scandole di ardesia scura,/ finché annotta.
Ora Ladi è morto e si è sentito nelle convalli l’ultimo suono del corno alternarsi agli spari dei compagni di caccia. Beatriz nel frattempo è cresciuta, chissà se la cagnetta è ancora viva…
e
Dopo i cinquant’anni (chissà,/ per altri, sarà prima,/ più svegli, certo, accorti/illuminati),/ capisci forse qualcosa/ della Provvidenzialità che guida/ la tua vita e il mondo./ Il senso delle cose che, dunque, accadono/ apparentemente incomprensibili,/ nella mescolanza indipanabile/ fra ciò che la tua volontà decide,/ e i limiti imposti, necessari,/ dalla condizionata e relativa libertà,/ connaturale al tuo unico vivere,/ dove sei stato posto.
e ancora
3 Dicembre a Roma
Dall’alto la terrazza guarda Roma/ verso il Palatino e le colonne/ miste al laterizio rosso./ E’ tiepida l’aria che avviluppa/ i sensi e nuvole rosate/ verso il mare./ Dinnanzi il bianco altare patrio,/ a fianco le gesta di Traiano,/ a lato cupole intonate a nuvole,/ anch’esse inconsapevolmente/ borrominiane./ In sfondo tetti embricati e pini/ italici scuri, senza un affanno.
…e, tanto per ricordare la forma petrarchesca o foscoliana del sonetto…
Sogno è la vita, ed è il morir, svegliarci[1]
Endecasillabo disincantato/ di un uomo in vista della propria morte,/ percorso il tempo suo disanimato/del senso vero dell’umana sorte.
Illuminazione giammai tardiva/ sulla resipiscenza e sull’azione,/ che si dipana sola e vera e viva/ nella ricerca della sua funzione,
in questo mondo perituro e aspro,/inconsapevole sollievo e incastro/tra le azioni umane e la prescienza
divina, permeata di sapienza,/cosicché gli sovviene il verbo vero/ inesplicabilmente dal mistero.
[1] Voltaire (Francois Marie Arouet), 1694-1778.
Nirvana
Ciò che spegne col soffio la candela:/ “liberami dal dolore della terra“/ sicché possa congiungermi all’eterno/ e infinito da cui tutto procede.
Le luci pallide di questo tempo/ memorano all’occhio l’invisibile,/ richiamando fortezza e vanagloria/ le pulsioni, sorelle, e l’impossibile.
Lascia che il demiurgo ti resusciti/ senza dolore e nella pura gloria:/ tu gioirai come per la vittoria.
Ma vera non è se tu non l’abiti/ l’aspra e ventosa isola straziata/ che vive la tua anima esiliata.
…non basta
Le campane di Vito d’Asio
Sul sentiero il passo era di Iacopo,[1]/ e il vento a san Martino./Alta l’erba cresciuta/al monte Pala, scheletrici/i pali del recinto./”Più non sopporto le parole vane“,/sembra di udir l’amico confidare/al poeta fuggitivo:/”… io starò qui ad attendere/il tuo arrivo, speranzoso“.
Ma il poeta lo raggiunse nella sera,/fredda del monte, e lo rassicurò/come poté,/ lasciandogli una lettera ben chiusa,/ e un rapido, umbratile sguardo/ di falco.
Finiti illimitati, …bollicine
Sfere perfette e immisurabili,/ numero irrazionale, inconoscibili,/seguono i comandi della bimba,/nelle folate di vento a inizio/ primavera, quali iridescenze frali/scompaiono per terra,/ e basta un filo d’erba per scomporle,/ o tra i rami d’albero spogli,/ o infine, baluginando/ verso le incerte nuvole di marzo,/ e il volo delle tortore.
è come la si vedrà nel mentre/ si sarà intravisti:/ un “non vedere Dio”, ma l’oggi/ un navigare di bolina, quasi/ a quarantacinque gradi,/ sfruttando il vento che vien contro,/ forza avversa e inquieta,/ è un mio guardare tra le vele/ perspiciendo e perspectando,/ e spesso un pormi-di-traverso/ alle cose, così,
è forse per dispetto,/ (o per diletto).
[1] Iacopo Ortis era di Vito d’Asio.
(Altri pezzi e brani inediti conservo nel nascondimento).
Cambio registro sull’attualità: ascoltavo Renzi alla festa nazionale del PD in quel di Genova, e oggi Bersani, sempre lì. Connotazione delle due interviste: la superficialità quella di Renzi che chiama Bersani “spompo” e minaccia un T.S.O a chi si definisce “renziano” (falso modesto come tanti, deludente), e una sorta di rassegnata nostalgia in Bersani per una sinistra che non c’è. Ovvietà declinate con diversi timbri e linguaggi. Un disastro. Questi lasciano agli altri anche le firme sui referendum radicali sacrosanti. Ce malstà, dit par furlan.
E dall’altra parte ci sono le Biancofiore e i Bondi, per tacer di altri dimenticabilissimi campioni.
Ho nostalgia di Galloni e di Cossutta, di Mancini e di La Malfa senior (beninteso), di Saragat e Bettino. Perfino di Vecchietti, Fanfani e Malagodi.
A est invece c’è l’orrore.
Non comprendo nulla di Obama, questa sera. Forse chi siede nello studio ovale soffre di una sorta di riflesso pavloviano, per cui ritiene suo diritto e suo dovere essere gendarme al mondo, opera espletata con alterni esiti. In Siria vi è un groviglio inestricabile, tantomeno da bombe o proietti intelligenti. Nulla comprendo di chi vuole sempre insegnare agli altri con il dito alzato: “devi…” senza kantiane nobiltà morali, così, solo per dire, e senza l’umiltà di riconoscere il vero nell’altro: un altro “io“. Il processo è lungo, senza scorciatoie, caro Obama.
Spero e prego in silenzio che il padre Francesco sabato 7 settembre abbia tanti con lui. Io ci sarò in spirito.
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