Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La vita

La vita ci viene incontro senza il nostro consenso. Veniamo dal non-essere, avendo possibilità di esistere solo se accadrà qualcosa tra quelli che potrebbero essere nostri madre e padre. E “in mente Dei“, se crediamo, dove siamo fin dalla fondazione del mondo (apò katabolès kòsmou, Ap 13, 8b).

Ma la domanda sul nostro consenso è un quesito che nasce ex post, quando abbiamo almeno l’uso di ragione, ma un po’ evoluto: io ho cominciato a chiedermelo da adolescente, quando con mamma Gigia ragionavo sulla “giustizia” della mia robusta sopravvivenza, sulla morte precocissima del mio fratellino Antonio e sulle condizioni di mia sorella. Non avevo ancora la capacità e le conoscenze analitiche, logiche e semantiche in grado di farmi capire che stavo usando una categoria sbagliata, quella della “giustizia“, che è invece virtù classica e nozione etico-giuridica

Mi chiedevo dunque: perché io così e loro colà? Mia madre che, se non aveva niente da dire, stava zitta, a differenza di molti, sia a quei tempi sia oggi, che parlano perché hanno l’organo fonatorio, mi lasciava in silenzio, magari in fondo all’orto o sotto il grande gelso del cortile.

Dopo un po’ smettevo di pensarci, così come mi accadeva quando, sempre in quegli anni, pensavo all’infinito e all’eterno di Dio. Qualche barlume di risposta mi è venuta negli anni, studiando e ristudiando quello che filosofia, teologia, matematica e fisica ci hanno provato a dire, nel tempo. Qualche volta mi ha aiutato più la matematica, come per la nozione di infinito, in qualche altro caso la teologia filosofica, come per la nozione di “Dio“. Circa il tema dell’eternità, preferisco rifarmi alla dizione “scolastica”: interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio, e vie indenant (dit par furlan).

Risposte sempre insoddisfacenti, ma ho capito nel tempo i limiti della nostra mente, che non-può-comprendere-tutto, né tantomeno il Tutto. Le neuroscienze ci stanno fornendo sempre più nozioni sul nostro funzionamento di primati umani, ma non ci dicono nulla sulla domanda iniziale: perché io e non mio fratello? Domanda mal posta, curiosità malsana, quaestio indecidibile? Eppure viene naturale farsela.

Stamani, guardando una mattina tranquilla, ottobrina, incerta tra lo schiarimento del cielo e un po’ di pioggia, andrò a correre… E domani a Ferrara e martedì poi in Piemonte, vita che scorre con altri esseri umani lavoratori, che vivono interrogandosi e si interrogano vivendo.

E pensavo anche a Carlo Lizzani, mancato ieri 91enne. Venuto al mondo senza chiederlo, decide di andarsene, come prima di lui Monicelli, Lucentini, Primo Levi, Pavese, Hemingway e molti altri noti e a me non noti, e Lucio Magri in una clinica svizzera ausiliato da medici e infermieri.

Non accendo neppure una luce (che resta misera) sul fondamento della scelta, di per sé imperscrutabile, né mi immergo in ragionamenti di tipo etico o filosofico teoretico o teologico-morale. Sto in silenzio, pensando al dono-della-vita che non sempre capiamo o, meglio, com-prendiamo,  qualsiasi cosa significhi dono, se non altro perché ci è data la possibilità di guardarci attorno e di capire qualcosa, sempre molto poco, e anche di capire soffrendo, perché la conoscenza è suo sinonimo: più si capisce comprendendo (intus-legere) e più si soffre.

Quasi quasi si può dire che il sacrificio, cioè il rendere-sacro-qualcosa è proprio questo, sulle tracce della Croce di Jehoshua ben Joseph ben Nazaret, detto Cristo, nostro Signore.

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