Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

E’ trasparente il filo di Sofìa?

Girovagando nelle fenditure e negli interstizi di ciò-che-appare-all’esistenza, e che molti ritengono sia solo quella-cosa-lì, mentre altri ritengono sia la manifestazione di una realtà più profonda, l’essere, appunto, io penso. Sono un “io-che-pensa” un essere-che-sta nel divenire di ogni cosa, Parmenide vs. Eraclito forever. Ma compresenti.

Tra i primi Eraclito, come gli scettici di ogni tempo e luogo, da Sesto Empirico a Hume, a Sartre e a Popper, ma anche Kant e i suoi successori, non ha mai ritenuto che si potesse dare una conoscenza dell’essere, perché si tratterebbe semplicemente dell’infinito di un verbo (del principale verbo) ausiliare, la cui copula “è” definisce ogni cosa e tutte le cose a una a una, secondo una convenzione nominalistica concordata. Per Kant, infatti, la conoscenza accessibile all’uomo è solo fenomenica, cioè di-ciò-che-appare. La profondità della la cosa-in sé egli la chiama noùmeno, e non è conoscibile.

Tra i secondi, Tommaso d’Aquino, sull’orma gigantesca di Aristotele, ma oltrepassandolo, distingueva tra essere, essenza ed ente, dando a ciascuno di questi termini un significato preciso e complementare: l’essere è ciò per cui l’ente è, l’essenza è ciò per cui l’ente è ciò che è, l’ente è ciò che è (participio pres-ente del verbo essere sostantivato e sostanzializzato). Se per le nozioni di essenza e di ente potremmo trovare facilmente un accordo tra i primi e i secondi, per il concetto di essere le cose sono più ardue e una convergenza pressoché impossibile. L’ente poi è anche soggetto, cioè un qualcosa di subjectum, cioè di antecedente a qualcosa (il predicato), di cui si può dire qualcosa: questo è …, che è il suo significato.

Con grande originalità Heidegger rappresenta in qualche modo, se non quasi una conciliazione tra le due posizioni con il suo concetto di esser-ci (il Da-sein), un percorso metafisico nuovo, che tenta di cogliere la co-incidenza di essere ed esistere. Fin da Cartesio (di questi, Agostino -in qualche modo- mentore), però, la preminenza è attribuita al dato di coscienza, che precederebbe logicamente il coglimento della verità della realtà. Non vi sarebbe, per Descartes, realtà se non alla coscienza soggettiva.

La trasparenza della realtà è allora in dubbio. Il mio filo trasparente di Sofìa (e di Follia) un’illusione? Chissà mai.

Ho iniziato questo libro ricordando il nostro grande padre Cornelio Fabro, furlàn come me. Mi è presente la sua libera ricerca nella e della libertà, percorso sul quale anch’io mi sono incamminato da tempo. A lui ricorro per lumi importanti. Così come ricorro al sapere metafisico quando necessito di rischiarare il mio pensiero.

Ad esempio, alle due triadicità esplicative, quella del sillogismo dimostrativo e quella dialettica. Il sillogismo per la sua consequenzialità limpidissima (a. l’uomo è razionale, b. il razionale è libero, c. l’uomo è libero), la dialettica per la possibilità di trarre dal confronto tra tesi e antitesi una sintesi più elevata, perché derivante da un porre il problema, da una prima ipotesi e da una soluzione dinamica (positioresolutiocompositio).

Ricerco l’oggetto formale delle cose, cioè l’aspetto per cui posso attribuire al soggetto il predicato: si pensi a che cosa è il “matrimonio”, oggetto giuridico formale definente un contratto tra uomo e donna finalizzato all’unione e alla procreazione. Letteralmente è ufficio della madre, non qualsiasi rapporto di coppia. E’ dunque in ragione di questa rigorizzazione terminologico-concettuale, non di scelte politiche o moralistico-ideologiche, che è assurdo chiamare o definire “matrimonio” l’unione gay, perché ontologicamente altro.

In questo modo è possibile, sempre umilmente, ricercare e trovare forse una certa trasparenza epistemica, là dove in qualche modo il lògos dialoga con me, mentre resto in ascolto della sua talvolta flebile voce. Ciò senza dimenticare l’altra dimensione, quella che possiamo chiamare “follia”, e che appartiene a ciascuno, non come declinazione psicopatologica, ma come disponibilità ad accogliere anche l’esterno, il diverso, l’emozionale, il canto disteso della musica, della fantasia e della poesia (Heidegger).

Non possiamo pensare a un umano lògos onnipresente, onnisciente e omnicomprensivo, perché sarebbe il luogo d’origine dell’arroganza e della prepotenza. Venga dunque anche la “spina nella carne” di san Paolo (2 Cor 12, 7), a tormentarci un poco, al fine di non farci addormentare nel sonno della solitaria ragione.

 

Cogitando, meditando et contemplando

iter meus procedit, in vita mea.

Hic et semper Deo

sicut Spiritus Sanctus

et Presentia in anima mea

gratias ago.

 

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