Concentrazione, timidezza, superbia
Pare che i maschi umani non riescano a reggere lo sguardo di un proprio simile per più di sei o sette secondi, mentre le femmine non hanno problemi. La ricerca paleoantropologica, almeno in alcuni studiosi, propone un’interpretazione pratica: il maschio avrebbe uno sguardo unidirezionale e profondo, perché abituato fin dai primordi alla difesa dalle fiere e alla caccia, mentre la femmina avrebbe sviluppato uno sguardo più ampio e di raggio minore, perché abituata all’accudimento della prole e alla casa.
Di quest’ipotesi, peraltro, abbiamo più di qualche conferma pratica: per strada una donna vede senza girarsi anche chi cammina sul marciapiede opposto, ricordando colore dei capelli e abbigliamento, l’uomo invece deve girare il collo per vedere distinguendo qualcosa. In casa una donna vede anche la più piccola ragnatela nell’angolo più remoto della stanza, mentre l’uomo guarda tutt’intorno e non vede nulla, non ricordando poi neppure il colore del mobilio.
Nei colloqui capita a volte che chi ti sta di fronte non ti guardi mai -o raramente- negli occhi: a volte è per imbarazzo o per sofferenza del carisma altrui (magari il tuo), ma talora questa disposizione può avere un’origine multipla: a) concentrazione, b) timidezza, c) superbia.
La persona guarda nel vuoto, o verso l’infinito o le sue scarpe, perché è concentratissima sull’obiettivo, sul fine che si è proposta; la persona guarda a destra e a sinistra o in basso perché è timida, non osa alzare lo sguardo temendo di essere fulminata da quello altrui; la persona non guarda dritto negli occhi l’interlocutore perché non lo ritiene indispensabile, potendo andare oltre, per superbia.
Forse vi può essere anche qualche remoto ancestrale retaggio rettiliano o pre o proto-ominide, perché anche negli animali si possono osservare meccanismi analoghi: ad esempio l’etologia ci insegna che è meglio non sfidare un cane aggressivo con lo sguardo, o titillare i baffoni di un leone troppo da vicino, o scherzare con un ippopotamo o un elefante…
Ma ogni contatto umano, ogni relazione, ogni dialogo intersoggettivo fa storia a sé, e va interpretato di volta in volta sempre con occhi nuovi e cuore disponibile.
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