Caro amico Nietzsche
non so che cosa avresti potuto pensare di quella piccola lirica che ti ha dedicato Umberto Saba forse una trentina d’anni dopo che te ne eri andato, te la scrivo
“Attorno a una grandezza solitaria
non volano gli uccelli, né quei vaghi
gli fanno, accanto, il nido. Altro non odi
che il silenzio, non vedi altro che l’aria”
(U. Saba, Canzoniere, Einaudi, Torino 1978, 549)
Non so. Forse ti saresti schermito al suo definirti “grandezza“, forse avresti accettato più volentieri il “solitaria“, ché non volevi certo ergerti a grande, ma a vero.
A volte ti penso, come stamani, perché tutt’intorno avvolge ipocrisia, devi badare a chi si nasconde dietro parvenze di umiltà, false modestie, timori e tremori non credibili, direbbe l’altro smascheratore di falsi sentimenti Kierkegaard, che assieme a te ha ripulito il pensiero superbo, gli idealismi presuntuosi e autoreferenziali. Caro Friedrich, ti sento quasi fratello nella sofferenza, la mia è insignificante se confrontata con la tua, che forse solo intuisco tra i brandelli del tempo e ciò che scrivi.
Oggi la tua pro-fezia, il tuo dire-davanti-al-tempo, sconcertante e scandaloso, è qui, nel nostro tempo. Il vuoto, il nulla che hai preconizzato ne La volontà di potenza è davanti a noi. L’avevi scritto con chiarezza, che il rischio era già ai tuoi anni, di una falsificazione dei valori, della verità dell’uomo, che è cagionevole e frustrato, è angelo incarnato a volte inconsapevole della propria grandezza. Va per scorciatoie invece di guardarsi dentro, vive di infingimenti recitando la commedia tragica del potere e della con-venienza quotidiana. Quanti sorrisi ipocriti, quanti sepolcri imbiancati che mi inorridiscono come facevano schifo a te. Ce ne siamo accorti in pochi, o meglio molti se ne sono accorti, ma gli va bene così. Questi non sono neanche grandi cinici, sono solo opportunisti piccoli e striscianti come bruchi cui sorridono i denti.
E poi questi hanno ammazzato Dio e con Dio anche il padre, il padre buono che accoglie e che anche sbagliando insegna, come scrivi tu, qui sotto.
L’uomo folle. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “E forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”.
A questo puntò il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!“.
Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.
(F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, tr. it. di F. Masini, in Opere, Adelphi, 1967, vol. V, tomo 2, 129-130.)
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