Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Un “Essere delle lontananze”

daniel day-lewis…per Heidegger è l’umana esistenza. Un essere che deve spostarsi dall’eredità dei padri ai figli, fin nel deserto. Abramo e Ulisse sono i padri sapienti che sanno lasciare il figlio, fidandosi della Legge divina, figlio cui danno la possibilità di crescere, non chi lo coccola per crescerlo Narciso, o chi lo abbandona temendolo, come Laio.

Ereditare un patrimonio genetico o risorse materiali non è un diritto proprio, ma una condizione esistenziale, un continuo farsi del soggetto, una rinascita, come spiega Gesù a Nicodemo, che fa fatica a capire, dicendogli “In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio“. Gli disse Nicodemo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse rientrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato da carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se te l’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3, 3-8). Ma Nicodemo, come ognuno di noi, capisce poco. Io dovrei capire qualcosa, se non altro per tenere fede al mio nome, che ha a che fare con la rinascita perenne allo Spirito.

Vediamo l’opinione di uno psicanalista del nostro tempo. “Ognuno di noi è l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall’Altro ci hanno costituito. Non possiamo parlare di noi stessi senza parlare degli Altri che hanno determinato, fabbricato, prodotto, marchiato, plasmato la nostra vita. Noi siamo la nostra parola, ma la nostra parola non esisterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola degli altri che ci hanno parlati. La Legge della parola sancisce l’esistenza di questo debito simbolico all’origine dell’evento della parola. La possibilità della mia parola è data dalla presenza del linguaggio (io sono un “parlessere” direbbe Lacan, ndr) che la trascende e sul quale essa deve potersi inscrivere per esistere nella sua singolarità. L’atto di parola è sempre mio, ma è sempre mio solo in quanto riprende in modo singolare l’esistenza universale dell’Altro nel linguaggio (…)” (M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013, p. 123).

L’eredità è da cogliere come momento da cui ripartire. Gesù scandalizza i discepoli quando risolutamente e seccamente impedisce a uno di loro di andare a seppellire il padre: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti” (Lc 9, 62), o quando risponde a chi gli dichiarava fedeltà assoluta: “Le volpi hanno tane, gli uccelli del cielo ripari, ma il figlio dell’uomo non ha dove poter posare il capo” (Mt 8, 18). Che cosa vuol dire Gesù, se non che ogni esistenza, ogni vita umana è data nello stato errante, nella discontinuità, nell’insicurezza, oggi diremmo, nella precarietà (che è uno stato di preghiera).

Ed è da questa condizione che ogni vita è un esodo, un exitus dalle certezze e un reditus nella propria conformazione soggettiva aperta, figlia di tutti gli itinerari, di tutte le tempeste, di tutti i successi e anche dei fallimenti, di tutte le miopie e di tutte le acutezze,  capace di essere un molo da cui possono partire -anche per paesi lontani- i nostri figli.

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