Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Arbeit macht frei

Il tseminario filososfico Phronesisremendo crudelissimo ossimoro nazista può essere tradotto, non tanto letteralmente, ch’è ovvio, ma antropologicamente. In che senso? Nel senso di una condizione esistenziale che (cf. Richard Sennett in L’uomo artigiano) apprezzi il lavoro ben fatto, quello che si chiama lavoro artigianale, capace di focalizzare i problemi, di porsi domande e trovare soluzioni, anche incomplete e temporanee, per un fine perfettivo che si sa aspettare.

Nel Rinascimento, incomparabile età dell’intelligenza dell’homo occidentalis, l’artigiano (artifex) era quasi comparato socialmente all’artista, Michelangelo compreso. Benvenuto Cellini era nello stesso tempo artista e sublime artigiano, e così il liutaio Stradivari. Se si lavora come quegli artigiani, si rifugge la superficialità, la banalizzazione dei processi e delle tecniche, tenendosi sul versante del coinvolgimento emotivo, della riflessione e della relazione con gli altri.

Il lavoro è l’attività di trasformazione delle materie prime in qualcosa di utile per la vita, è la relazione con la terra madre che sostenta, è anche perfino la relazione con la propria mente che si coltiva. Il lavoro è ragione di messa in moto dei neuroni, lo studio è lavoro, come dico ogni tanto alla mia Bea.

Il lavoro è elevazione spirituale, è crescita, è lotta contro l’arroganza del potere: chi lavora si affranca, chi non deve vivere di politica per vivere, lavora.

E’ un lavoro anche quello del vescovo di Roma, lavoro cui ha rinunziato Benedetto XVI quando non ha più sentito di avere le forze fisiche e spirituali per espletarlo (ingravescente aetate), analogamente a ciò che fece Pietro Angeleri da Morrone, Celestino V, che non “fece per viltade il gran rifiuto” (Inferno, III, 59-60), caro amato padre Dante.

E’ vero piuttosto (e qui il “piuttosto” è usato come avversativa, non come spesso sento utilizzare come congiunzione, ahinoi!) che “l’esercizio del comando asservisce” e “L’aspirazione a comandare, l’ossessione del potere è, a tutti i livelli una forma di pazzia. Mangia l’anima, la stravolge, la rende falsa. Anche se si aspira al potere a fin di bene, anzi soprattutto se si aspira al potere a fin di bene. La tentazione del potere è la più diabolica che possa esser tesa all’uomo, se Satana osò proporla perfino a Gesù. Con lui non riuscì ma riesce a volte con i suoi vicari (e con gli uomini, ndr).” Così Ignazio Silone fa dire a Celestino V in un passo de L’avventura di un povero cristiano.

Che c’entra il lavoro con il potere, con Celestino V e Ratzinger? C’entra, perché ogni uomo e donna vivono situazioni nei quali la vita si intreccia al lavoro e al potere, ma solo se la vita e il lavoro si integrano, e il potere è concepito come servizio, resta la salute mentale, e un’etica della vita umana e della relazione tra gli esseri umani è veramente libera e degna di essere chiamata umana.

Bea

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