Fecunditas et Felicitas
L’etimo sanscrito “fe” dà origine alle parole latine “fecunditas” e “felicitas“, felicità e fecondità. In qualche modo, dunque, la felicità sarebbe collegata alla fecondità, ed è indubbio che così, in qualche modo, sia. Si dà felicità nell’arrivo di un bimbo a una coppia umana, di dà felicità al raggiungimento di un risultato, frutto di fatica e di studio (fecondo). Per i grandi maestri greci (oltre ai due Sommi, anche per Epicuro, Epitteto e Zenone di Cizio, tra molti altri) il piacere più grande era quello del sapere e della virtù praticata.
Vi sono nazioni come gli Stati Uniti d’America che hanno inserito la “felicità” tra i diritti dei cittadini. Ottimismo individualista di matrice empirista e protestante? I nostri padri costituenti non hanno osato tanto, forse perché eredi di una cultura più profonda, smaliziata, esperta delle cose del mondo e dell’uomo, quella cattolica.
Da qualche decennio viviamo la legittima stagione della conquista dei diritti, fino a qualche tempo fa negati: il suffragio universale alle donne nel 1946 (!), in Italia; i diritti dei lavoratori con lo Statuto (1970), la parità di opportunità tra uomini e donne al lavoro (tra gli anni ’70 e i ’90), ancora da completare: questi i “diritti socio-politici“. E poi i “diritti civili“, tra i quali un certo approccio espressivo-linguistico e ideologico, annovera il divorzio e la possibilità dell’aborto, non solo terapeutico. Tra i diritti, da qualche tempo si è posta con un’enfasi davvero sproporzionata la tematica delle unioni civili, a volte malamente definite come “matrimonio” (un vero e proprio non-senso semantico e quindi veritativo).
Negli ultimi giorni è tornata d’attualità la questione della fecondazione artificiale, che in Italia è regolata dalla Legge 40 del 2004, in modo sicuramente discutibile e da riformare. La sentenza delle Corte costituzionale di ammettere la “fecondazione eterologa” ora negata dalla legge, pone l’esigenza di una riflessione non banale o semplicistica, e tantomeno militante.
Innanzitutto, si può dire che il concepimento di un essere umano è un diritto da garantire a qualsiasi costo? O può essere inteso come una possibilità legata alla natura e alla scienza, ma a certe condizioni? E’ proprio eticamente plausibile e ammissibile che tutto ciò che può la scienza, si ammette? Non c’è qualche contraddizione logica e morale in tale asserzione? Si può dire che “avere un figlio” più che un diritto è un dono? O sa troppo di melensaggine clericale? A me pare invece che siano più melensi i discorsi su certi “diritti” negati.
“Diritto” dovrebbe essere “ciò che è giusto e buono“: è sempre tale ciò che viene chiamato così da molti sapienti mediatici?
Bene. Se è ottima cosa favorire sempre la ricerca, si può dire che vi sono limiti umanamente invalicabili all’applicazione di certe scoperte? Si può dire, evidentemente, solo se si condivide il “giudizio di valore” sulle cose umane. Prima di affermare che si può trattare un embrione in un modo o nell’altro: congelarlo, impiantarlo, uno o tre che siano, del genitore facente parte della coppia umana costituita, o di un altro, o addirittura darlo a una donna single o a una coppia omosessuale, bisogna attribuire un valore all’embrione, che è -non solo metafisicamente- ma biologicamente un “uomo o donna (maschio/femmina) possibile“.
Qui però mi fermerei ad esaminare in breve solo la questione della fecondazione eterologa. Poniamo pure che essa sia, tutto considerato, una procedura moralmente accettabile, anche in vista di domande future del nato, magari da adolescente. “Chi è mio padre?” E poniamo anche che sia ragionevolmente possibile rispondergli in modo soddisfacente, ma non so bene come.
Potremmo pensare a un’analogia con le adozioni: i figli adottati sono amati come i figli naturali. Nessun problema. Ma se capita quello che è successo a due coppie italiane in questi giorni, che in sede di pratica della FIVET (fecondazione omologa in vitro, in questo caso), sono stati scambiati gli embrioni, per cui una delle due madri si trova ad aspettare due gemelli dell’altra coppia? Che si deve fare in questo caso? Suggerire loro di abortire, per riprovare con più attenzione? Ma i due ignari “zigoti“, ormai “morule” o “blastule” o che altro ancora, forse “feti“, “esseri umani possibili“, quindi valore altissimo, che “colpa” hanno se qualcuno ha sbagliato provetta?
No. Tenerli, naturalmente, come ha già deciso la madre dei gemelli non “suoi”, e così avremo dei figli che hanno per padre (cromosoma y) quello dell’altro nascituro e forse viceversa, e le madri (cromosoma x) avranno il figlio dell’altra coppia, e i due padri idem.
In realtà, qui si è trattato, paradossalmente della modalità detta dell’utero in affitto, o forse un’eterologa per meglio dire, ma involontaria!
Un cul de sac, un’aporia che si può superare solo con un infinito amore per la vita, ma senza banalizzare l’accaduto a semplice episodio di mala sanità. Qui si tratta di qualcosa di molto più profondo e grave che richiede di riflettere su come usiamo la scienza e come applichiamo un’etica della vita umana alla nostra esperienza quotidiana.
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