I cavalieri del cielo
Un’altra volta ho chiamato i ciclisti in questo modo, qui, anni fa. E oggi di nuovo. Oggi hanno scalato il freddo del passo Gavia e i tornanti dello Stelvio, a quasi tremila metri, e infine la Martelltall.
Il piccolo uomo venuto dalla Ande, Nairo, è fuggito come un cerbiatto per le salite feroci. Lo hanno seguito alcuni, ma a distanza, l’eroico Hesjedal, e il piccolo uomo di Calabria, nome lui stesso Pozzovivo, il bianco polacco Rafal Majka e Aru scuro fenicio magro di Sardegna, e infine Rigoberto Uran degli altipiani, che resiste ancora fasciato di rosa.
Il dolore era con loro come un amico inseparabile, quasi a scandire il crudele mulinare delle pedivelle, meccanico strumento di trasmissione della tortura alle ruote fragili e leggere, alla conquista dell’altitudine. Curva dopo curva, sguardi a terra per non essere atterriti dalla salita, triste come il naso di Bartali, cantava Paolo Conte di immortali memorie.
Loro, i ciclisti, sanno che non si deve alzare troppo lo sguardo in salita, ma fermarsi ai metri che arrivano e alla ruota di chi precede, non distraendosi mai. Meglio auscultarsi nello scandire della corsa, sentire tra le fitte da acido lattico, il ritmo del cuore, le sistole e le diastole, l’inspirazione e l’espirazione dell’aria vitale. Gocce di sudore ghiacciate solcano la fronte cadendo sulle gambe e a terra.
Mi chiedo perché quello sforzo, che ricorda altre fatiche obbligate, come quelle dei cavatori di pietra e dei minatori, queste invece apparentemente incomprensibili. Apparentemente. Perché l’uomo nasce e vive a fatica.
Coppi e Pantani rivivono in questo leggero indio che sale deciso verso la vetta, “un uomo solo al comando“, il dolore accanto.
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“un uomo solo al comando“, il dolore accanto