della reputazione
In latino il verbo putare significa “ritenere, pensare”, cui segue un “che” reggente la frase oggettiva (infinito più accusativo).
Dal verbo latino deriva la parola “reputazione”, che ci interessa individualmente sempre, e molto. Gloria Origgi lo sintetizza oggi bene sul Sole 24Ore della Domenica: l’uomo ha una doppia identità, una intima, riservata, propriocettiva, corporea, l’altra legata all’esternalità, all’identità sociale, a ciò che gli altri pensano di noi, legittimamente o meno.
L’identità sociale è chiamata anche The Looking Glass Self (Charles Horton Cooley), “come un io che si riflette allo specchio“, spiega Origgi.
Quando noi pensiamo a ciò che pensano gli altri di noi, cerchiamo di fare in modo che pensino il meglio, ci interessa non venga leso il nostro prestigio al punto, se necessario, di barare falsificando la realtà.
Il nostro “io-sociale” è il nostro impegno quotidiano per tutta la vita, e a volte ci provoca perfino angoscia, vergogna, terrore, come nel caso di Jean Claude Romand, che nel 1993 uccise sul lago di Annecy in Francia la moglie, i due figli e la suocera, per impedire che scoprissero la sua vera identità professionale su cui aveva barato per quasi vent’anni: per tutto quel tempo aveva inventato di essere un medico e di lavorare in ospedale. Una speranza, un’aspirazione (forse) diventata in lui realtà virtuale da tutelare come fosse reale. Un bravissimo Daniel Auteuil ci racconta la tragedia nel film L’avversario, tratto dal racconto di Emanuel Carrère.
Il nostro secondo stato identitario non è comunque “ciò-che-pensano-gli-altri-di-noi”, ma ciò che noi pensiamo gli altri pensino di noi. Questo è l’assillo, e a volte la tragedia.
La reputazione è sempre aleatoria, specialmente in una società mediatizzata come quella attuale. A me è capitato in almeno due fasi della mia vita di essere molto presente sulla stampa, in una prima fase come rappresentante in un ruolo pubblico molto esposto, nella seconda come opinion maker. Ora sto ritirandomi un po’ da tutto, affinando il mio lavoro e la mia ricerca, lavorando di più sul toglimento che sull’aggiunta, di più sulle assenze che sulla partecipazione: e non per sussiego o per supposta preziosità, ma per la consapevolezza che tutto passa, e bisogna lasciare spazio a chi sta sopravvenendo, liberando quanto più possibile l’identità sociale dagli orpelli dell’ansia da prestazione e dal desiderio idolatrico del successo e del potere.
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