la “gabbia umana”
Siamo intellettualmente combattuti tra due estremi: quello spiritualista, che sembra dare per scontata una realtà extra-terrena, e quello materialista, che la nega recisamente. Francesco Guccini rimprovera questi secondi con gli aspri versi di Cyrano “(…) tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali“.
Cercando di non entrare in ambiti di carattere teologale o fideistico, e restando in una epistemologia filosofica, si può dire che non è scontata né la prima né la seconda posizione. Nei secoli, come sappiamo dalla storia del pensiero umano, queste due polarità si sono scontrate e combattute, esprimendo fior di riflessioni, frutto di menti brillantissime e acute: tra Platone e Democrito (anni fa scrissi un dialogo immaginario tra Agostino e Democrito, pubblicato nel volume Il Senso delle cose da ed. La Bassa), tra Lucrezio e Tommaso d’Aquino, vi sono divergenze radicali, ma il pensiero proposto da ambedue questi versanti è interessante e profondo.
Vi sono ragioni di qua e di là, anche se io propendo di più per Platone (e Aristotele), Agostino e Tommaso. Probabilmente Democrito, Epicuro, Zenone di Cizio e Pirrone di Elide o Sesto Empirico sono stati meno sensibili a quella che possiamo chiamare autotrascendenza, sentimento intellettuale che interessa l’uomo fin dai primordi, ma hanno compreso come funziona la natura meglio e ben prima degli altri campioni. Anzi, Leucippo e Democrito (riletti da Lucrezio nella latinità) hanno colto elementi di verità nella phùsis naturale (tautologia!), che possono essere considerati prodromi della fisica contemporanea più evoluta.
Faccio questa premessa, perché spesso mi viene posto il tema dell’uomo che tende a salire, a superarsi, ma che, in realtà, rischia di rimanere sempre vittima di una specie di gabbia, ricadendo in se stesso. Nietzsche e Feuerbach mentori, quasi come i grandi della tradizione spiritualista: il primo con la sua aspirazione al superamento di un’umanità piegata e piagata dal dolore, il secondo con il provocatorio rovesciamento della “creazione”: non Dio crea l’uomo, ma al contrario.
Giusto ieri sera un caro amico che fa l’avvocato mi poneva con grande forza questo tema della “gabbia” entro la quale l’uomo è chiuso da sempre anche se non smette mai di divincolarsi. Egli, dice lui, resta prigioniero, comunque. Come fare, allora? La domanda.
Il mio tentativo, in equilibrio tra un nietzscheanesimo adattato e il pensiero antropologico di Tommaso d’Aquino, è stato quello di dirgli: noi umani non abbiamo altra strada che quella dei “due sguardi”: quello sul presente e vivo (e sul suon di lui, come chioserebbe Leopardi), unico tempo della realtà, unica verità effettuale, e quello su un futuro non troppo lontano, visibile, quasi tangibile con le mani della mente, in una progettualità prossima e ragionevole.
Tutto qui? L’amico mi risponde. Sì, di più non so se non continuare ad ascoltare le “voci di dentro” che forse sono il sussurro della Coscienza cosmica, cioè di Dio stesso.
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