Le parole e le cose
Fin da bambini siamo stati abituati a dare i nomi alle cose, per cui le parole che denominano una cosa rinviano solitamente all’immagine che abbiamo della cosa: se io dico “anatra” normalmente sono in grado di pensare al simpatico palmipede.
Perciò, si è più o meno sempre ritenuto che le funzioni cerebrali preposte all’aggancio dei nomi delle cose alle cose stesse fossero un processo unitario. Dalla storia del linguaggio sappiamo che l’uomo è nel tempo riuscito a dare i nomi alle cose (cf. in Genesi 2, 20), partendo da suoni che assumevano significati via via condivisi e successivamente diventavano segni di un codice linguistico, ideografico o sillabico-alfabetico che fosse.
Pare invece che così non sia: Diego Marconi, docente di Filosofia del linguaggio a Torino, spiega che vi sono due modalità cognitive di relazionare i nomi delle cose alle cose stesse, cioè di sviluppare la competenza lessicale. Un primo modo è quello referenziale, per cui riusciamo a correlare effettivamente il nome della cosa alla cosa stessa, secondo la convenzione linguistica che abbiamo imparato; un secondo modo è quello inferenziale, che “gestisce le relazioni delle parole con altre parole”. I due circuiti, o moduli, o sottosistemi possono non essere sempre armonicamente connessi, specialmente quando vi sono disturbi, ad esempio, di tipo epilettico.
A volte compaiono sconnessioni divertenti, anche in persone che conosco, e che Walt Disney ci ha insegnato ad apprezzare: si pensi al linguaggio di Dotto, il nano sapiente, che spappola delicatamente le parole e le frasi, facendo diventare i prefissi suffissi e viceversa (o viceserva).
Dislessie, dislalie, distonie, discrasie, cose di questo mondo, che rappresentano la meravigliosa normalità del diverso.
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