18
il numero dice la maggiore età, oppure il simbolo binario dei dentro o fuori, del “o con noi o contro di noi”, il numero di un pazzesco manicheismo contemporaneo, il famoso articolo 18 della Legge numero 300 del 20 Maggio 1970, denominata “Statuto dei Diritti dei Lavoratori”, redatta dal professor Gino Giugni, socialista, e fortemente voluta dai Ministri del lavoro Giacomo Brodolini, socialista, e Carlo Donat Cattin. democristiano di sinistra ed ex sindacalista della Cisl, votata dal Centrosinistra di allora (DC, PSI, PSDI e PRI, con la benevola astensione del PCI). Risultato di storiche lotte sindacali che riuscirono a dare ai lavoratori dipendenti una Legge di tutela dall’allora strapotere dei “padroni”.
Ricordiamo una Legge importantissima, diventata simbolo e mito. Sappiamo che i simboli sono “cose-che-legano” e i miti sono racconti primigeni, iniziatici: se qualcosa, dunque, diventa tale, vuol dire che la cosa assume un’altra valenza nella realtà delle cose, non è più la stessa di prima.
Il dibattito in tema, di nuovo revivificato dalle intenzioni del Governo, è subito diventato furente. Le nuove regole che stanno venendo discusse sono interessanti, sia per il mercato del lavoro, sia per le singole persone. La decisione sarà faticosa, ma i risultati che saranno raggiunti, con gli altri provvedimenti sul mercato del lavoro (ammortizzatori sociali e formazione di riqualificazione), potranno dare una concreta mano al rilancio dell’occupazione.
Se vogliamo parlarne, al di fuori di simboli e miti, il tema dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori deve essere inquadrato nel più ampio tema del welfare.
Si chiama diritto potestativo di recesso, il potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente. Da oltre quattro decenni, esso deve fare i conti con limiti legislativi e giuridico-contrattuali realizzati a seguito di epiche lotte sociali e sindacali, per rimediare alla storica disparità di condizione tra il datore di lavoro e il dipendente, condizione che oggi andrebbe opportunamente riesaminata.
Deterrenza e “baluardo di civiltà” viene oggi definita da alcuni (quelli che non vorrebbero cambiare nulla) questa normativa, quasi “totemizzata” sul piano ideologico-filosofico.
Però il dispositivo della reintegra previsto dall’articolo 18, in caso di licenziamento illegittimo e quindi inefficace e nullo, concernente le fattispecie della giusta causa e del giustificato motivo, non rappresenta oggi una tutela equa proprio sotto i profili etico e pratico. Infatti produce effetti strani: ad esempio a) “consiglia” alle aziende di assumere preferibilmente a tempo determinato o con altri strumenti di flessibilità soprattutto i giovani; b) anche se le sentenze favorevoli su cause promosse dai lavoratori licenziati sono in percentuale molto alta (tra il 60 e l’80 % delle cause promosse), la reintegra avviene solo in pochissimi casi, perché si preferisce l’indennità sostitutiva; c) alimenta le cause legali con costi abnormi anche per il dipendente, che perde tutto se perde la causa, e non ha neanche un sostegno dallo stato; infine, d) l’articolo 18 tutela solo i lavoratori a tempo indeterminato in aziende con più di sedici dipendenti, che sono, in assoluto, una minoranza. E i giovani ne sono esclusi. E il Pubblico impiego ne è da sempre escluso, perché ipertutelato dallo “stato giuridico”, monstrum tipicamente italiano.
A parer mio è forse meglio un contratto a tempo indeterminato per tutti, con possibilità di licenziamento anche per ragioni economiche e una tutela di welfare to work (formazione e indennità) immediata ed efficiente. Anche per il Pubblico impiego.
Se Camusso, Bersani, Cofferati (quello che confonde i diritti fondamentali naturali con il diritto positivo) et universa pecora, non lo capiscono, peggio per loro.
Le cose cambieranno presto.
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