always on the road
…mentre apprendo che Bea si porta da Sacile a Codroipo a Udine a Pordenone, per amicizia e musica, io son stato sul Matajur con Luca, ombre in cammino. Traversata di tutto il massiccio in un’ora e mezza, o poco più. Visuale sulle Giulie eccelse, dal Canin al Tricorno e fino al Monte Nero. In basso la profonda forra isontina; racconti partigiani sulle Malghe di Mersino, la sella slovena e poi la vetta pacificata nel 1947. Pranzo eccellente al Rifugio Pelizzo e Cividale immersa nel sole ottobrino. Una tavolozza di storia e leggende, dal quartiere medievale al Borgo Brossana, al Tempietto, al fiume e al Duomo solenne dell’Assunta.
E il visto come oggi non sia mai tutto il visibile, come canta Mario Luzi “Mai il dicibile/ sia stato tutto detto, mai.” (Poesie ultime e ritrovate, Garzanti, Milano 2014).
Il silenzio è grazia trascorrente sull’erba e sul granito bianco della montagna, è ritmo, tempo rubato al tempo del declivio, oscuro illuminato fremito del sole alto, distante, così prossimo al buio.
E mi chiedo, camminando, chi sono io, chi è questo “io” camminante? Sono sempre lo stesso, quello di stamani, identità perfetta di essenza ed esistenza? Lo stesso che brontola ed impreca, lo stesso che studia e si affatica, il medesimo che ama come può in modo incompleto e a volte sgangherato?
Siamo “uno, nessuno, centomila”, come ipotizza Pirandello, o un uno cangiante e mutevole, contradditorio e ambiguo?
Vi è una unità nell’ente che ci costituisce, oppure l’ente io-persona è solo un’astrazione? Guai a dirlo ad Aristotele e Tommaso. Ma Nietzsche potrebbe convenire, e pure Heidegger e Sartre: specie se io sono essenzialmente il mio linguaggio, e il mio dire è la casa dell’essere che mi contraddistingue, oppure è l’essere stesso che cammina con me verso la cima, del Matajur, o di qualsiasi sforzo?
Che “io” si manifesta mentre spero, dispero, taccio, ascolto e parlo? Mentre incontro le persone diverse della mia vita, cui sono affezionato, o meno… affezionato perché ormai fanno parte di me da molto o da meno tempo, anche in contraddizione con un “io” monolitico e superbamente saggio?
Forse che non sia meglio lasciare la domanda in sospeso, accettando di essere un “io” più fluido e imperfetto, come suggerisce qualcuno (Stephen Mulhall, The Self & Its Shadows, Oxford University Press, 2014), o come talora intuisco anch’io, non potendo percorrere due sentieri che divergono, ma potendo percorrere un sentiero con due versanti? Non il bivio, dunque, ma lunghe parallele che si affiancano, convivono, si sopportano, si eludono senza elidersi, nella contraddizione che consente (contra Dantis opinionem)?
Ah che fatica, ma anche che bellezza ricercare il sentiero sul monte, temendo di sbagliare, ma recuperandolo più a valle, o poco più sopra, dietro un masso, un cespuglio, un declivio nascosto, un anfratto, un chiaroscuro… da vivere, da raccontare, da ricordare fino alla fine del mondo, fino alla fine del tuo tempo, negli occhi di chi ti è vicino, pazientemente sopportandoti,
amen.
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