Col Quaternà
Quota 2503, brullo e stepposo, il Col Quaternà ci accoglie tra le rocce più antiche del Comelico, le filladi, che risalgono fino a oltre 500 milioni di anni fa (Cambriano-Ordoviciano). Rocce scure e scistose, antichissime sabbie e limi, deposti in un mare poco profondo, che il tempo ha cementato trasformandoli in arenarie e siltiti.
300 milioni di anni fa, nel Carbonifero, esse subirono grandi trasformazioni a grande profondità, e furono coinvolte, poi, nella formazione di un’antica catena montuosa (Catena Ercinica), e pure soggette ad altissime pressioni. Il Col Quaternà “è un vecchio camino vulcanico (neck) formato da una roccia più resistente (lava vulcanica) rispetto a quello che lo circondava (il vulcano), che con il tempo si è smantellato essendo formato da rocce più alterabili, lasciando così la testimonianza del solo camino centrale.” (dal web sul Comelico).
E ancora, dalla stessa fonte: “Oltre alle rocce vulcaniche del Col Quaternà in prossimità del Passo di Monte Croce Comelico si può osservare uno degli affioramenti più belli ed estesi delle Arenarie di Val Gardena (sono arenarie rosse di origine fluviale che derivano dallo smantellamento delle piattaforme, prevalentemente vulcaniche, che emergono verso est; la colorazione rossa testimonia, oltre che l’origine continentale, anche un ambiente arido desertico.”
Ultima cima occidentale delle Alpi Carniche, ai confini con l’Austria, confini-non-confini, ora aperti, e per cui cent’anni fa morirono mezzo milione di soldati-contadini veneti, friulani, abruzzesi, siciliani, piemontesi, stiriani, croati, sloveni, bavaresi, toscani, calabresi, carinziani, ungheresi, su queste cime innevate e asperrime, in inverni interminabili, nel vento a raffiche feroci dei venticinque sotto zero.
Abbiamo camminato nella nebbia fino in cima, su una mulattiera militare dove sembrava di sentire ancora gli incitamenti ai muli degli artiglieri. Il ricordo dei morti è nelle trincee ancora visibili presso la vetta e nell’epigrafe dolente, e un po’ retorica, apposta sotto il grande crocifisso sommitale.
Filmiamo qualcosa, ringraziando di essere lì, Loris soddisfatto dell’ascesa, forse una delle più ardue mai provate.
Scendendo, le nubi di nebbia si allontanano, colorando d’autunno la visione: vallate immense verso l’Alpe di Nemes, uno scorcio mistico sulla Croda Rossa, un sentiero erto nel bosco di larici verdeggianti, ci accompagna fino alla Malga di Coltrondo.
Non molto dislivello, forse settecento metri in tutto, ma condivisione del cammino, che è la cosa più importante: adattamento dei ritmi di passo all’altro, alternando fitte discussioni ai silenzi, per dedicare alla struttura corporea in movimento ogni stilla di energia e di ossigeno trasportato ad irrorare l’organismo.
Anche il pranzo sobrio giova alla convivenza tra diversi, che la montagna impone. Il monte suggerisce di tornare all’essenziale, regala scorci interiori altrimenti lasciati alla sordina o a una quasi muta latenza.
La montagna istruisce sulle cose che veramente valgono, sul valore della fatica come ricerca del sé, talora zittito brutalmente nel confuso vorticare della vita d’oggi.
Vivere la montagna aiuta a collocare le cose nella giusta gerarchia, smorzando le ire della competizione e la rabbia della rivendicazione, semplifica, sintetizza, consola.
La montagna, con le sue solitudini inviolabili, pone la vita davanti a se stessa, senza velamenti e senza specchi, nella purezza dell’essere.
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