Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

I tigli di Rivinius

con AndreaA maggio per tutta la piazza si effondeva il profumo dei tigli, e noi ragazzi si stava sulle panchine per interminabili chiacchierate fino al botto di mezzanotte e oltre. Sotto i tigli.

Stamani rimembravo ricordi arcani e anticamente nitidi, seduto di fronte alla schiera dei grandi alberi secolari, in quel del prediale di Caius Rivinius, a Rivignano, strano paese delle acque smeraldine, il mio paese. E’ probabile che il nome sia derivato da quello di un centurione cui l’imperatore Augusto duemila anni fa assegnò un podere, che prese il nome del veterano.

Eravamo ragazzi, Marco, Andrea, Alessandro, Giambenito, Cesare, Fabrizio, Gianni 1 e 2, Luciano talvolta, e altri il cui nome ora mi sfugge, rigorosamente maschi, ché le ragazze non potevano stare nei nostri discorsi di politica e di sport, di musica e di grandi speranze.

Tra la fine dei ’60 e quasi la fine dei ’70, un decennio fragile, violento e favoloso: il decennio di Hendrix e dei Cream, di Paolo VI, di Moro e delle BR, di Mennea e Moser, di Thoeni e Ingemar Stenmarck.

Il decennio del terremoto in Friuli: 5 maggio 1976, ero lì, dopo cena, verso le nove, con Cesare, solo noi due, quando si è scatenato. Nessuno di noi aveva memoria, né racconti. Il terremoto era un fatto lontano nello spazio, e soprattutto nel tempo. Tutto è accaduto quella notte, le case che tremavano e le notizie radio che diramavano i primi numeri della catastrofe. L’indomani (a quel tempo studiavo e lavoravo in fabbrica a Udine) non siamo andati al lavoro o a scuola. Ho riempito la mia Alfa Giulia 1300 Super e siamo andati su, ad Artegna dove c’era il nostro amico don Angelo, e a Moggio Udinese da mia zia, che era salva, con tutti i suoi, la casa crollata.

Per qualche giorno ho dato una mano lassù da qualche parte, la nostra vita era cambiata per sempre. In Friuli c’è un prima e un dopo terremoto.

I tigli stamani mi ricordavano, stormendo leggermente le fronde e le foglie ingiallite dal tempo ottobrino, che loro sono ancora lì, testimoni viventi del tempo che passa, dei cosacchi che, dopo la profezia di mio nonno Toni (lui aveva detto decenni prima, che sarebbero arrivati i “Mongoli”, e mio padre me lo ricordava sempre), si erano abbeverati alla fontana della piazza.

Ho salutato un paio di quei vecchi amici, trovati davanti a un bicchiere di vino, in attesa della Fiera dei Santi e dei Morti, carissima al Nievo, sì quelli dei tempi andati. Quasi non mi riconoscevano con gli occhiali da ciclista e la bardatura antivento.

Ah Renato, sempre uguale, bastardo, vai a c., viene a bere un bicchiere. Sì carissimi, speriamo un giorno di vedere qui con noi anche chi è andato via in un paese lontano.

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