Elena
Anch’io che passo/ ti ringrazio/ stellina della sera/ m’insegnasti ciò che non sapevo/ continua a farlo/ piano/ mandi.
E’ l’epigrafe sulla tomba della piccola Elena, mia nipote. La scrissi dopo la sua morte bambina quasi trent’anni fa.
Lascio il mio sguardo sulla piccola lapide e sulla foto, una signora mi osserva senza riconoscermi, perché ho la muta e gli occhiali scuri da ciclista. Ora andrò a trovare la nonna Catine, una delle prime mie maestre di vita, e poi Luigia e Pietro, la sempre presente madre, e il papà capace di stupori finché è vissuto, puro di cuore come i fedeli della Prima beatitudine matteana.
Cammino lentamente per il grande cimitero del mio paese natale, dove iersera Bea ha cantato davanti a una moltitudine ammirata. Mi sarebbe piaciuto si fosse ricordata di dire che lei stessa ha ventitré cromosomi del mio vecchio borgo strano, e selvaggio. Ma non è nelle sue corde.
Leggo nomi e date, le tombe son varie, tra il sobrio e il ricercato, alcune segnate solo da vecchie croci (il morto non aveva chi potesse pagargli il marmo della lapide), vi sono scritte in rilievo e altre incise, solo il nome e le date, oppure una frase memore d’amore.
Molti visi riconosco e ricordo vivi, persone che erano già anziane io bambino, ma anche qualcuno più giovane di me, ed è morto.
I cimiteri istruiscono. Fanno toccare con mano la fragilità costitutiva del nostro venire-al-mondo, transitarvi e poi andare.
Camminando camminando incontro persone, alcune le riconosco, altre no: manco dal paese da trent’anni, e mi chiedo che cosa sarebbe stato di me se vi fossi rimasto. Nessuno lo sa. Ognuno di noi è costituito da molti elementi, alcuni naturali e molti altri culturali e ambientali. Rivignano non è un paese che aiuta a guardarsi in giro, o perlomeno non lo era: il controllo sociale delle scelte era fortissimo, ora forse, con la deriva etno-sociale in corso, non più.
Quando si pensa al proprio destino, inteso come traccia su cui si incide solo in parte, ogni cosa fatta lo ha costituito, e non ci sono alternative, se non ipotesi puramente mentali, come esercizi neppur troppo benefici. E’ sempre meglio evitare di pensare “E se… e se avessi fatto, incontrato… embé? Forse nulla, forse peggio“. Non a caso, ma per cause, note o ignote, le cose accadono e, una volta accadute, nulla più si può per far sì che non siano accadute: neppur Dio può riarrotolare il corso degli eventi, che lui comunque tutti insieme vede sub specie aeternitatis. Non so se la fisica potrà un giorno dove i fanta-film hanno già potuto. Quaestio nullius.
Mi soffermo ancora un poco sulla piccola tomba di Elena, e mi sento quasi di porgerle la mano, verso la sua piccolina, al di là del tempo, sapendo io pochissimo del Tutto, e lei, ormai, sapendo tutto.
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