Le famiglie e il dolore
Premessa. Questo post potrà risultare a qualcuno indigesto e perfino sgradevole, ma, come è noto a chi frequenta questo sito, a me non piace corteggiare il pensiero unico e politicamente corretto, che aborro per la sua intrinseca stupidità e per la falsità deformante, il pensiero, per esemplificare, di uno che ha un’organizzazione mentale “à la Vendola-Fazio-Saviano”.
La violenza accompagna le nostre vite come racconto quotidiano, e a volte come esperienza.
I media ci ammanniscono sicut veleni le cronache di mille e mille fatti e atti delittuosi, che accadono sullo scenario del mondo e nei microcosmi urbani e familiari. Sembra quasi di essere sull’orlo di un baratro spaventoso nel cui fondo si muovono innominabili esseri di violenza, come in un racconto orrorifico di Lovecraft.
Eppure le statistiche, inoppugnabili, dicono che in Italia la violenza omicida si è ridotta negli ultimi trent’anni del 400% o quasi (duemila omicidi circa nel 1980, seicento nel 2013, di cui -sempre un quarto- con vittime femminili: in cifre assolute, sia gli omicidi, sia i “femminicidi”, horribile dictu e stupido neologismo, stanno drasticamente diminuendo, alla faccia dei titolisti di giornali e tg e dei conduttori e conduttrici di talk show). Ciononostante l’impressione comune è che le cose stiano peggiorando. Un gravissimo caso di falsificazione (come insegnava Karl Popper) delle notizie, e della verità delle cose.
Dentro questo mondo di violenza mediatizzata ci sono le famiglie, genitori, figli, fratelli, sorelle etc., sine fine nos dicentes.
Parenti stretti e men stretti (ricordate le cugine della povera Chiara Poggi di Garlasco?) compaiono in televisione, talora a piangere, ma ora, e sempre più spesso, a diveggiare.
E qui si notano grandi differenze nel mostrare il dolore, proprio ricordando certi fatti, e tra più recenti: alcuni lo mostrano in modo schivo e pudico, come hanno esemplarmente sempre fatto i genitori della povera Yara, i signori Gambirasio, quelli di Chiara o della povera Meredith Kercher; altri, invece, cercano sistematicamente l’evidenza dell’esposizione mediatica, come nel caso della vicenda del povero Stefano Cucchi. Nessuno può dire nulla circa la verità dei sentimenti personali, ma si può dire molto sui comportamenti.
Mi si dirà che anche questi “secondi” sono delle vittime della mediatizzazione, ma potrei rispondere che c’è modo e modo di parlare in televisione, e che si possono vendere oppure non vendere interviste ai rotocalchi scandalistici, come fanno spesso questi “secondi”. Faccio un esempio: se mi chiedessero che cosa fa -di mestiere- la sorella del povero Cucchi, la ormai notissima e gettonatissima Ilaria, mi verrebbe da rispondere, fa “la sorella di Stefano Cucchi”, e altrettanto mi vien quasi da dire della mamma del povero Ciro Esposito da Napoli. Troppo eloquenti, troppo aggressive, troppo professionali nel loro dolore, mai un inceppamento nei loro discorsi, mai un anacoluto! Parlano come Capezzone e Casini, come uno scontatissimo politico romano. Non mi convincono.
Sarà perché la mia cultura furlana mi porta a diffidare di strepiti e lai eccessivi, una cultura nella quale le prefiche non sono mai esistite e i funerali si sono sempre celebrati con criterio, riservatezza e pudore. Sarà così, ma io non digerisco chi si fa intervistare in morte di… e ripetutamente accusa, e si mette su un piedistallo di giustizia, ergendosi a giudice e vindice del mondo.
Non è in questione che si debba chiarire quello che è successo in ogni caso (Cucchi, Aldrovandi, Uva, Magherini, etc,), individuando e punendo secondo la legge i responsabili di questi crimini contro l’uomo, ma è in questione il modo, perché si può discutere di come si vive la tragedia, di come si vive il dolore.
Anche Sofocle si sarebbe vergognato di certe maschere che girano da un canale all’altro, senza tregua, e le avrebbe invitate a chiedere un po’ di pace al “dio”, dopo avere chiesto e ottenuto giustizia dal “re”.
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2 Comments
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Caro Renato condivido tutto ed aggiungerei la famiglia di Carlo Giuliani… ( la vergogna fatta comunicazione)
Dispiace per il povero ragazzo morto, e per il carabiniere impazzito, ma non posso dissentire dalla tua amara considerazione, Paolo