Parlar cinque lingue per nulla
Vi son persone poliglosse (o poliglotte) che tal capacità vantan ognora e in ogni luogo. Loro possono discorrer in lingue diverse, nobili e meno, e tradurre per gli incliti i detti di parlanti altri idiomi in un pubblico consesso. Quando lo fanno di profession quotidiana si conformano al ruolo degli interpreti-traduttori, per cui ci son scuole nominate e di non usurpata fama, anche nelle nostre contrade.
Esiston poi persone che non sono di profession interpreti, ma professionisti in proprio, che parlan più lingue di questo mondo e tempo. Ne conosco. Alcuni di questi son portatori di valide idee e pensieri originali, altri meno, ma sanno vender fumo con le parole.
Della prima specie ricordo esperti di commercio e insegnanti di quelle lingue vaghe e varie di cui qui facciam memoria; nella seconda annovero non pochi e vari rappresentanti dell’uman genere.
I primi solitamente son provvisti dell’umana, divinamente ispirata, virtù di umiltà, così come la insegnava ai suoi frati il Santo Benedetto da Norcia, Patron d’Europa; i secondi solitamente son più facondi che umìli, facondi come chi parla, anco per parlare, per far sentir la propria voce agli altri, e fors’anche e di più, a se stesso.
Spesso questi ultimi han parole a profusione, annovero tra loro, non solo gente d’azienda e di economia, ma fior di politici e scrivani di giornali. Di questi mi fa specie un genere (perdonino i puristi dell’aristotelismo), i radical chic, di cui abbondano esemplari come i quadrupedi nella savana. Qualche nome lo faccio, come i riottosi del PD (e lo dico da sinistra, non sentendomi in buona compagnia di costoro), come la Boldrini, Travaglio, Mineo, Padellaro e Vendola, come Scalfari, Saviano e Fazio, o sindaci radical chic e a volte gaffeur come Marino, Pisapia, De Magistris e Doria (acc. tutti di “sinistra”), come tutti color che son sospesi nella realtà virtuale di una sinistra che non morde alcunché del reale, se inteso come c’insegnan sanamente, da secoli, Democrito, Aristotele, Epicuro, Tommaso d’Aquino e Hume. Che nostalgia di Sciascia.
Poi, più da vicino potrei nomar quasi-colleghi, o forse, d’aziende insigni, alcuni che, appunto parlano più lingue per dire un nulla logico, cioè un qualcosa che s’avvicina al nulla, perché presume d’esser ciò che non è, incantando forse, e non è certo, qualcuno, ma solo la prima volta: la seconda siam già scafati e capiamo al volo il tentativo di riempir bottiglie con acqua millantando vino, ma non siamo alle nozze di Cana, dove parlava Colui la cui Parola valeva come la vita intera.
Ahinoi, che dobbiamo talora sopportare chi parla cinque lingue per dir poco o meno ancora, magari sorridendo, ma ancor di più ahiloro, ché l’inganno o anche solo la millanteria duran non molto e poi finiscono, perché implodono in un ciuff, o in un’altra onomatopea dello sprofondo.
Noi ci salviamo, specie se sappiamo dare senso al tempo delle parole, che son pietre, son macigni, sono pura realtà che vive, respira, piange e ride e attende, e scruta nuovi sensi delle vite nostre e altrui.
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