Autopercezione, autostima e reputazione
Tra auto-percezione e reputazione (che può essere positiva o negativa) vi è un rapporto dialettico stringente e necessario, in uno psichismo “normale”. Esso ha a che fare con l’autostima e il principio di identità personale da un lato, e l’opinione degli altri su di noi, dall’altro. La reputazione, che è formalmente neutra, va distinta concettualmente dalla stima, in quanto questa è espressione di un giudizio positivo da parte degli altri: il suo contrario è la disistima che veicola cattiva reputazione.
Si tratta di un movimento da considerare, sia in tutte le relazioni intersoggettive, sia tra soggetto e gruppo cui il soggetto stesso appartiene organicamente o anche, sotto un certo profilo, saltuariamente o inconsapevolmente. Pensiamo a un contesto scolastico, aziendale, militare, religioso: il funzionamento della dimensione relazionale e valutativa in questi vari “ambienti” è abbastanza analogo. Spesso accade che vi sia una discrasia tra le due prospettive, specialmente nelle persone che sviluppano un’autostima non equilibrata, sia in senso espansivo, sia nel senso opposto. Con queste persone non è facile trovare un comun denominatore analitico e valutativo minimo, perché tendono ad enfatizzare la propria “centralità” esistenziale e valoriale, come principio veritativo, sottovalutando l’importanza del contesto nel quale si trovano. In questi casi l’opinione degli altri è come velata, silenziata, sottovalutata dall’enfasi auto-percettiva.
Nella mia esperienza non raramente mi capita di gestire situazioni del genere. Nel contesto, il lavoro da fare è sulla focalizzazione della dialettica tra senso-di-sé (auto-percezione, autovalutazione) e opinione altrui (reputazione), cercando di sensibilizzare la persona nella quale è presente un conflitto tra le due prospettive, circa ciò che vada primariamente tenuto in considerazione, ovvero la reputazione, vale a dire l’opinione degli altri su di noi. Non perché questa, in assoluto, sia la più veritiera (quante volte constatiamo che le maggioranze hanno avuto o hanno torto, nella storia umana e nella politica contemporanea!), ma quella che “opportunamente” conta di più, e soprattutto perché mi può aiutare ad approfondire lo sguardo interiore su me stesso, specialmente se è ottenebrato da un’autostima espansa.
Non è facile farlo perché, come quando ascoltiamo la nostra voce registrata questa ci risulta diversa da quella che percepiamo dal vivo mentre parliamo, così accade sotto il profilo psico-soggettivo: noi riteniamo di essere fatti e valutabili in un certo modo, epperò questo non corrisponde mai a come veniamo visti dagli altri. Ecco il punto da approfondire, sempre.
Un altro tema correlato è quello dell’interpretazione del ruolo sociale che rivestiamo, e delle “maschere” che indossiamo. Un assunto: nel contesto relazionale e sociale non è possibile essere-se-stessi fino in fondo: se in qualche modo si può cercare di esserlo nelle relazioni affettive più strette (coppia umana, genitorialità, figliolanza), e non sempre, nelle altre relazioni, non solo ciò non è possibile, ma neppure plausibile o consigliabile. Di fatto, e anche per con-venienza, indossiamo sempre una qualche maschera, non foss’altro perché governiamo il nostro linguaggio e il nostro comportamento, non cedendo, solitamente, alle pulsioni di moti primi-primi, cioè all’impeto delle emozioni o passioni, tra le quali l’ira può prevalere, creando non pochi danni.
Adottiamo allora quello che Aristotele chiama “governo politico delle passioni”, cioè la ragione nel suo esplicitarsi discorsivo a livello razionale.
Il rapporto positivo tra passioni e ragione, e tra auto-percezione e consapevolezza della nostra reputazione è il terreno razionale sul quale costruire le nostre relazioni affettive e collaborative. Non vi sono scorciatoie e facilitazioni in questo arduo e paziente percorso esistenziale e morale.
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