Linee di “marketing”?
duole dirlo, ma “piani di marketing” li fanno non solo le aziende, del cui lavoro sono parte essenziale, ma anche i sindacati, che forse dovrebbero basarsi su assunti un po’ diversi dalla mera ricerca del consenso. Sono qui al sud per cercare di salvare con i sindacati dei metalmeccanici più di cinquanta posti di lavoro. Non sto a dire i dettagli, e basti questo: tra un accordo di solidarietà senza integrazione aziendale e una cassa integrazione unilaterale, i sindacati sembra preferiscano quest’ultima, ma non perché più favorevole ai lavoratori, ma perché più “vendibile” in assemblea. Non più dunque una forma di orientamento dei lavoratori, ma una pedissequa disposizione a compiacere gli egoismi delle persone già garantite dal tempo indeterminato e dall’ammortizzatore sociale.
Le aziende e i brand ideano e rinnovan i “piani di marketing” adattandoli alle caratteristiche e alle tendenze dei mercati di riferimento, usufruendo di ricerche socio-economiche di settore e sviluppando adeguatamente la funzione R&D (Research&Development), ma le aziende non vendono “coscienza”, anche se a volte applicano meritoriamente Codici Etici. Le aziende, eventualmente, sollecitano consapevolezza nei consumi, mostrando al pubblico la qualità dei loro prodotti e dei loro servizi.
Un “brand” socio-politico come il sindacato, specialmente il sindacato confederale italiano, così ricco di storia politica e di afflato morale, così fondamentale in certi cruciali passaggi storici nazionali (basti pensare agli anni ’60/’80 del secolo scorso, su cui altro non serve dire), dovrebbe potere e saper dire altro dalla mera rappresentazione degli interessi, a volte solo miopemente apparenti, dei “lavoratori” i quali, specie se sono occupati, non hanno sempre ragione, e spesso hanno torto. Un torto che sa di corporativismo, di difesismo ad oltranza del qui e ora, e anche dei propri piccoli privilegi maturati a partire dalla sacrosanta stagione dei “diritti”.
Mi chiedo fino a che punto, alla fine, questa politica di mera rappresentanza dell’esistente possa pagare, vista la velocità con la quale cambia il mondo e l’economia in particolare, visto il costante afflusso di giovani molto scolarizzati sul mercato dei lavoro, i quali faranno molta fatica a sentirsi tutelati da chi mostra cuore e coraggio quasi solamente per chi ha già un lavoro.
Ciò che sta rapidamente avvenendo richiede una capacità di cambiamento di paradigmi riflessivi e progettuali che non so se sono alla portata cognitiva e culturale dei gruppi dirigenti sindacali attuali. Lo dico in particolare alla Cgil: non si tratta di “svendere” un patrimonio ideale, si tratta di ammettere l’esigenza di un cambiamento radicale nell’approccio ai temi economici e occupazionali, che oggi sono dimensionati sul globale e sulla capacità di innovazione creativa, e conseguentemente richiedono regole “positive” adeguate a nuove scansioni temporali esistenziali e lavorative.
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3 Comments
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Ben detto. Considerazione reale che mette in evidenza su quanto sia sempre più prevalente la raccolta del consenso individuale piuttoto che il bene comune.
un mondo del lavoro potrebbe essere anche senza sindacati dei lavoratori. Una buona legge/giudice del lavoro, un ispettorato del lavoro e commissione provinciale del lavoro efficienti, dovrebbero essere più che garanti per la tutela dei lavoratori
saluti roberto
Caro Roberto, io invece penso che i sindacati dei lavoratori siano indispensabili, come corpo intermedio e luogo di responsabilizzazione collettiva. Piuttosto sarebbe utile che la loro cultura politica si adeguasse ai nuovi contesti socio-economici e produttivi, senza perdere nulla in capacità analitica, critica e propositiva