La civiltà della parola
Ero piccolo e mio nonno Dante mi raccontava delle trincee sul Carso, di sangue, merda, sporcizia, barbe lunghe e pidocchiose, morti e feriti, e poi del Piave… e della vittoria con il proclama di Diaz. Me lo raccontava con il piglio epico del suo tempo, ma realistico e non oleografico come certe narrazioni risorgimentali dei sussidiari di storia patria.
Mio padre mi raccontava della campagna di Grecia e Albania, del colonnello tagliato in due da una granata, del suo duello alla baionetta con un greco, per cui io son qui che scrivo…, delle sue paure in terre ostili che l’Italia voleva dominare, ostili perché “patrie”, a loro volta, di popoli; e poi mi diceva dei fiumi di tutto il mondo e delle montagne e delle capitali. Nozioni e memoria e passione per imparare, introiettate per sempre.
Tutta la nostra infanzia nei ’50 è stata un racconto a molte voci, nelle osterie, nei cortili, in piazza, con il prete e il maestro, facendo sport e musica. Ogni occasione era buona per fermarsi e narrare le proprie vite o ciò che si era sentito da altri. Racconti, voci, parole.
C’era la radio e le prime televisioni: io andavo a casa del fornaio per vedere la “tv dei ragazzi”, con i telefilm in bianco e nero, come Ivanhoe, Robin Hood, Thierry La Fronde e Gianni e il magico Alverman o film paurosi come I Misteriani e Il pianeta proibito; e nell’osteria “da Lino” di fronte a casa mia, per vedere gli arrivi di tappa del Giro d’Italia, mentre alla radio si ascoltavano le Sinfonie di Beethoven, di domenica pomeriggio, con il commento di Mario La Broca.
E letture, i libri di scuola, qualche romanzo negli Oscar Mondadori (Pavese, Steinbeck più di Hemingway, qualche francese come Balzac, Dickens, molti russi come Turgenev, Gogol e Tolstoj, Dostoevskij sarebbe venuto più tardi), le superiori, il ’68, il racconto e la rivoluzione culturale, grandi speranze. La nostra era la civiltà della parola.
La generazione precedente, invece, aveva la parola ma non i libri.
Quella successiva e attuale ha quasi dimenticato la parola, intesa come espressione completa e relazionante: solo comunicazione digitale. Il parlato si è trasformato in criptoborbottii incomprensibili a chi non è della partita. Digitali nati, e Renzi che è il loro efficace antesignano, con i suoi twitteraggi quotidiani.
Oggi funziona così, ci si relaziona così, riuscendo a fermare la folle corsa comunicazionale solo in situazioni solenni, come una decisione familiare o un esame universitario
C’è da chiedersi che cosa stia succedendo, non solo a livello neuro-linguistico, ma a livello antropologico, che cosa stia cambiando, forse a un livello radicale, ma senza paura, solo con grande attenzione e capacità di ascolto: una sorta di obbedienza (nel senso latino di ob audire, cioè di stare-davanti-a-chi-parla) aggiornata ed empatica. Altro non vi è da fare.
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