intorno al mio tempo
Ogni tanto nella vita facciamo bilanci, specialmente quando si finisce di fare qualcosa, un lavoro, completando un progetto complesso e difficile. La fine del lavoro è talvolta perfino liberatoria, e dà il senso di un tempo che è passato nel farlo, e di una fatica spesa, sconosciuta agli altri.
Le storie umane prima o poi finiscono tutte, come insegna Qoèlet nel terzo capitolo, e io sono sempre stato un cultore delle historiarum fines, cioè dei confini di un tempo che ci si dà, dentro la sorte. In un altro mio libro ho scritto “Mi compiaccio di avere sempre anticipato l’obnubilamento della mia presenza, (…), del mio ingombro antropologico in ogni ambito.” (da Gente&Lavoro. La Fatica quotidiana e la passione di Speranza, 2013, p. 5)
Ovunque sono sempre stato con la cinta ai fianchi e il bastone in mano, pronto a partire, più ospite di tende che di case: in viaggio, in transito, precario, di passaggio, quasi intimidito da ogni profferta di stabilizzazione, effemeride sub specie aeternitatis. Spesso ho preferito la distanza e il silentium peregrinationis.
Ho considerato talora gradevole il distacco e l’allontanamento, creativo il ripensamento e il ritorno per altre e più secrete vie. Sempre per me più grata la diagonale, l’ipotenusa, piuttosto che i cateti o i lati perpendicolari, preferendo i gradi di un angolo acuto a quelli di un angolo ottuso: già questi due attributi, o accidenti metafisicamente rilevanti, dicono cose, dicono della mia vita.
Ciò non per lucrare sul tempo e sulle mie energie, ma per transitare lungo vie più tortuose e impervie, ricusando l’ovvio (ob-viam) e l’anodino sopravvivere nelle nicchie confortevoli offerte a piene mani dai cercatori di sudditi, di cui son pieni tutti gli ambienti sociali: fiducioso nella possibilità di trovare infinite strade, sentieri nascosti tra le ramaglie, come oggi risalendo il torrente di confine.
A pag. 6 del libro sopra citato scrivevo ancora “(…) Il destino mi ha accompagnato leggero dandomi un peso tale da non curvarmi, dandomi uno sguardo tale da non accecarmi, sempre grato alla mia genetica per la miopia, qualità atta a sfumare i contorni del reale, specialmente quando è sgradevole. Non bisogna esagerare con la vista e con l’udito, perché ci si potrebbe schifare del mondo, e a volte anche di se stessi. Se il tempo (che esiste, cari fisici del nostro tempo! esiste perché è la percezione soggettiva dello scorrimento dell’essere delle cose) mi ha segnato, come è naturale che sia, le mie rughe sono dissimulate come da una specie di sorriso lasciatomi in dono dallo scorrere degli anni, raro.
Ma va bene così: al mondo riso e pianto forse si equilibrano, e io ho portato un contributo moderato all’uno e all’altro.”
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