il talento
quando si affronta un argomento bisogna sempre partire dai fondamenti significanti originari, altrimenti si corre il rischio di fare lo start up dando per scontato saperi che , non solo non sono verificati, ma neppure sono condivisi. Nel nostro caso la domanda da farsi è: che cos’è il talento? Che significa? Come si può riconoscere e utilizzare? Quale è l’ambito ricettivo del talento riconosciuto? Che approccio culturale è richiesto per operare un adeguato follow up del talento in qualche modo riconosciuto? Successivamente, condiviso il significato del concetto, è necessario chiedersi il senso di ciò che si sta facendo, e anche qui non è scontato che esso sia parimenti chiaro a tutti. Circa il senso, dobbiamo sapere che questo si dipana, in buona misura, facendo, operando, correggendo, confrontandosi, fino a stabilire con sufficiente sicurezza la direzione comune da intraprendere.
Per far ciò partirei dalla parabola matteana dei talenti (25, 14-30) iniziando questa comune riflessione con te. La riportiamo qui integralmente:
Parabola dei talenti
(brani paralleli in Luca 19, 12-27; e in Rom 14, 7-8)
14 «Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 16 Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. 17 Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. 18 Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: “Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. 21 Il suo padrone gli disse: “Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore”. 22 Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: “Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. 23 Il suo padrone gli disse: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore”. 24 Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: “Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo”. 26 Il suo padrone gli rispose: “Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse. 28 Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. 29 Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 30 E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti.
E’ chiaro che il contesto sociologico e storico nel quale è stata scritta questa parabola evangelica poco o nulla c’entra con i contesti nei quali si tratta del talento nella contemporaneità, anche se il messaggio è chiaro: se possiedi dei “talenti” utilizzali, altrimenti compi quasi un “peccato contro natura” e puoi venire emarginato dal contesto, con senso di giustizia. In particolare, a quel tempo il talento era una divisa (moneta) di grande valore, e quindi possedeva un elevato valore economico di scambio (un talento poteva essere pari a 200.000 euro odierni), mentre oggi è in uso il suo significato metaforico, psicologico, sociologico: il talento è concepito come un valore potenziale, non definito, bisognoso di esplorazione e di “coltivazione”. Uno dei quesiti che si fanno è se i talenti siano innati o “creabili”. La risposta più plausibile sta in una sana antropologia, capace di distinguere tra struttura della persona (fisicità, psichismo e spiritualità) che dice eguaglianza ontologica e pari dignità, e struttura della personalità (genetica, ambiente di formazione e formazione stessa), che dice unicità e irriducibile differenza, e dunque dice “ruolo”, “carisma”, o ambedue le dimensioni reciprocamente e virtuosamente date, nelle quali il talento si manifesta.
I talenti sono, dunque, in qualche misura innati (e dunque potenziali), ma molto di più sono coltivabili da uno stato che altrimenti può rimanere latente. Occorre sviluppare delle analisi di carattere psico-attitudinale per esplorare questi potenziali individuali. (cf. ricerche recentissime delle Università di Cambridge e di Yale).
In realtà, per imparare un’arte complessa, in base alla psicologia cognitiva dell’apprendimento, occorrono almeno diecimila ore o dieci anni di applicazione teorica e pratica, questo in media: pensiamo allo studio del violino o del pianoforte, oppure a una laurea specialistica più dottorato di ricerca. Occorre applicazione costante e buoni maestri, resistenza e umiltà, capacità di ascolto e pazienza, tutte virtù classiche oggi piuttosto neglette. Se si lavora su profili professionali più bassi bisogna riproporzionare quanto sopra.
Dobbiamo aggiungere che quanto sopra va preso cum grano salis, poiché ogni soggetto è diverso da un altro, ed è determinato dai dati individuali della sua struttura di personalità (genetica, ambiente e formazione). Ognuno ha i suoi tempi di apprendimento e la sua propria dotazione di capacità auto-motivazionale.
Sicuramente l’ambiente in qualche modo determina in parte anche la genetica, per cui le caratteristiche individuali che possiamo anche chiamare talento restano in buona misura insondabili, e in parte sconosciute agli stessi soggetti, anche se il talento si può riconoscere da una maggiore abilità nell’apprendimento di nozioni e tecniche operative. L’ambiente in cui nasciamo e viviamo ha effetti sulle nostre capacità nel corso del tempo, non necessariamente nella prima infanzia o nella giovinezza, perché esso agisce come nei processi evolutivi di tipo darwiniano, non mancando di sorprenderci con “salti” improvvisi (cf. Boncinelli), e apparentemente disarmonici. Quante volte capita di scorgere una talento carismatico in una persona nella quale finora era stato ritenuto improbabile, ma era solo latente, perché misconosciuto o tenuto in sordina?
A volte sono minuscoli dettagli a fare emergere un talento nascosto, che vanno osservati come “segnali deboli”, ma profondi. E’ preferibile operare analizzando gli effetti polivalenti della gestione, piuttosto che affidarsi a test predisposti in modo generalista e socio-statistico.
I nostri geni (DNA) possono operare in modo sorprendente, predisponendo un soggetto a un certo tipo di crescita assolutamente originale, oppure possono -per contro- operare come in attesa di un cambiamento ambientale più favorevole per agire positivamente sul soggetto umano.
La dimensione innatistica (del talento) fa sempre i conti con l’ambiente e con l’educazione dei soggetti, per cui è buona norma analizzare attentamente gli aspetti biografici ed esistenziali delle persone di cui si desidera esplorare il potenziale, che è un dono, e come tale va considerato e sviluppato, insieme con una scienza morale capace di mettere in chiaro come il talento individuale deve sempre collocarsi in una dimensione relazionale, per essere fecondo e non asfissiarsi nell’amor proprio, nella vanità narcisistica e nell’orgoglio spirituale, perniciosa malattia dell’anima, fomite di amarezza e spesso di squilibrio mentale.
Il talento è un dono prezioso, da non svilire con atti di superficialità o, peggio, di superbia.
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