l’uomo che muore
Ho incontrato Egidio Maschio una volta, poche parole tra altri interlocutori. Di lui molti racconti, di gente che gli ha lavorato vicino, di qualche sindacalista, voces populi, più che altro. Burbero, intrattabile, solitario al comando, un so-tuto-mi, generoso.
Quest’uomo se n’è andato una delle scorse mattine. Si è tolto la vita. Settantatré anni, un gruppo di aziende di rispetto, duemila dipendenti e un fatturato in proporzione tra Veneto e Friuli.
Quando un essere umano prende la decisione di togliersi la vita si entra in un ambito esistenziale impenetrabile. Certamente vi possono esser ragioni, cause, segnali deboli e meno, che aiutano o orientano un’analisi esterna del gesto, ma il punto, il momento, il cuore della deliberazione irrevocabile restano inaccessibili.
Riflettendo sul processo decisionale psico-morale, mi chiedo se nel caso, dal concepimento dell’intenzione, alla deliberazione e all’attuazione di quanto deciso non vi siano stati momenti di interferenza o attimi di ripensamento, ovvero se, nel momento in cui si prende una decisione del genere, tutto concorre alla sua realizzazione ineluttabile, dal plesso emozionale ai neurotrasmettitori, a quanto altro interviene a livello mentale e biologico nella persona.
Ma, più importante ancora è chiedersi come un uomo possa trovarsi a decidere di andarsene in una solitudine silenziosa e muta verso gli altri. Che cosa è mancato che avrebbe potuto dissuadere Egidio Maschio, una parola, un colloquio, una riflessione condivisa? Forse cha a un certo punto si è reso conto di avere fatto il passo più lungo della gamba, e si è sentito perduto? Se sì, che cos’è questo “tutto”? Forse non un “tutto e totalmente”, cosicché la disperazione ha prevalso su una visione più alta e ampia… meno desolata e definitivamente conclusa.
E pensavo a tutte le arti umane che si occupano di questo, dalle psicoterapie alla consulenza filosofica alla direzione spirituale. Che cosa avrei potuto dire e dare a Egidio se fossi stato in contatto con lui? Domande su ipotesi che abbiamo bisogno di farci per pensare sia sempre possibile recuperare qualcuno dalla disperazione.
Mi dispiace e mi chiedo se non sia il caso che le strutture di rappresentanza datoriale e sindacale organizzino qualcosa a supporto di queste situazioni, per fare tutto ciò che è umanamente e scientificamente possibile per osservare, accompagnare, aiutare chi rischia di trovarsi a mal partito con se stesso e con l’immagine che ritiene di aver creato, e di cui è bene non restare prigionieri.
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