de humilitate
Caro lettore,
già trattai in questo sito di San Benedetto e delle virtù ascetiche da lui proposte, tra le quali spicca l’umiltà. Desidero riparlarne perché questi son tempi in cui sarebbe un grande bene si diffondesse ovunque, soprattutto dove regnano imperterrite la iattanza, l’arroganza, la protervia, la prepotenza, in definitiva la superbia, caput vitiorum, padre e madre di tutti i mali. Chi è superbo permette a se stesso ogni azione, negando altrettanto a tutti gli altri.
Tale virtù, per essere efficace, per Benedetto trova rinforzo in altre, come la pazienza, il silenzio, l’obbedienza e anche… l’imitazione di Cristo. Proviamo a immaginarla applicata oggi, specialmente in certi ambienti…
Vediamo come viene trattata questa meravigliosa virtù da Tommaso d’Aquino. Egli la colloca all’interno della virtù di temperanza (cf. Summa Theologiae, II-II, q. 161), e la definisce così: “una virtù dell’appetito irascibile che frena il desiderio della propria grandezza, facendoci conoscere la nostra pochezza davanti a Dio”. L’Aquinate, se condivide la valorizzazione dell’umiltà proposta da Benedetto, non è d’accordo sulla scala dei 12 gradini di umiltà proposti dal santo subiacense, perché per Tommaso ogni virtù è correlata alle altre (cf. ibidem, art.6), e quindi da subito deve essere sommamente evidente.
Benedetto, per contro, preferisce la strada pedagogica, per istruire i suoi monaci durante tutta la loro vita con esercizi di ascetismo (tautologia, perché l’esercizio è ascesi in sé).
Il termine humilitas, dal greco tàpeinos (basso, piccolo, povero, meschino, insignificante) etimologicamente ha la medesima radice di “homo’ e “humanus”: “humus”, terra, della terra, vale a dire “appartenente alla terra”, in definitiva “di poco conto”, come gli schiavi e i servi della gleba.
La semantica storica di umiltà è dunque concettualmente negativa, perché rinvia a qualità deteriori come essere ignobile, afflitto, infermo, di poco conto, personalmente e socialmente parlando…
L’umile era colui che viveva in una posizione servile, a volte per necessità di sopravvivenza adulatore, non mai persona in grado di esprimere grandezza, oppure, oggi diremmo, autostima, poiché non gli era concesso di essere o di diventare una “grande anima” (magnanimo). Ciò non significa che nell’antichità si esaltasse l’orgoglio, quando questo si tramuta in superbia, tutt’altro, perché invece si raccomandava una sorta di modestia sincera, la temperanza (la sophrosyne) come una sorta di riconoscimento dei limiti individuali.
L’umiltà assume un’accezione positiva alla luce della tradizione biblica e con il cristianesimo: gli “anawim” (cioè i poveri, gli ammalati, le donne sole, i bambini) godono del favore di Dio (cf. Giuditta 9,11; Giobbe 5, 11, etc.). Dio disperde i superbi ed esalta i miseri (cf. 1Sam.2,7-8; Salmo 145,7-9, etc.). La legge di Yahwe è attenta agli umili e rende giustizia a queste categorie, come si legge nei libri profetici e nei salmi.
L’umile e il povero, a causa della loro condizione possono comprendere meglio degli altri il valore e la bellezza dei beni spirituali, e sono più prossimi a Dio stesso (cf. Is 57,15; 66,2). Gli “anawim”, allora, sono i “poveri di Yahwe”, cioè i miti, coloro che sanno e hanno un senso creaturale delle loro vite e sono consapevoli dei limiti umani.
Da Gesù accettano la salvezza i più derelitti, i pastori, i pescatori, il popolo minuto, soprattutto: sono personaggi come i discepoli e la stessa Maria di Nazaret, donna del popolo. Dio ha fissato il suo sguardo su di lei: “ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1,48 e nei vv. 51-53 del Magnificat).
Tutta la vita e le opere di Gesù sono orientate in questo senso: egli proclama beati i semplici, i poveri e gli umili, e anche i bambini e coloro che si fanno piccoli come bambini (cf. Lc 5, 18; Mt 5,3-6; Lc 6,20-21; Mc 10,25; Mt 18,31; Lc 18,16-17); Per la salvezza dello spirito bisogna tenersi un passo indietro nella gloria umana, come insegna Luca (14,10), ritenendosi “servi inutili” (Lc 17,7-10).
Il Maestro di Nazaret non si limita a predicare, ma fa della sua stessa vita un esempio di disinteresse per i beni materiali e di povertà reale, dicendo: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Egli, il Figlio, è umile davanti al Padre, e umilmente fraterno con tutti gli uomini e le donne che incontra, senza orpelli di ruolo (egli è pur sempre un rabbi, un maestro): “Il Figlio dell’Uomo non e` venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita…” (Mt 20,26), e “Ciò che avete fatto al più piccolo…” (Mt 25,40) e ancora si umilia fino a lavare i piedi ai suoi apostoli (Gv 13,2-17), compito ci schiavi.
Che dire ancora a un mondo che ama il luccichio dell’apparenza, delle mostrine e degli alamari dell’autorità esibita, della preda catturata, un mondo nel quale molti uomini, e oramai non poche donne, pensano che il valore delle loro vite si misuri nella libido potestatis accolta e asservita al meglio, indifferenti all’altrui umanità, capaci di vuoti slogan viscerali (molti politici italiani), o di disonestà senza alcuna ragione, se non la pura adorazione di sé?
E qui ce n’è per tutti, potentati occidentali, satrapi d’Oriente, dittatorucoli africani e vicino-orientali che ammantano di sacro le loro nequizie, e violentano le loro genti fino a costringerle a fuggire da patrie spaventose.
Un Pater Ave e Gloria, per grazia di Dio.
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