Levia gravia sed scripta mea, ovvero, talora occorre fare un passo indietro
A volte nella storia e nel tempo, per andare avanti occorre fare uno o due passi indietro…
L’innovazione tecnologica sta migliorando la vita di tante persone, ma riduce il lavoro, riduce i posti e le ore lavorabili. Anche se i “PIL” delle grandi nazioni torneranno a superare i numeri pre-crisi, non vi saranno più i posti di lavoro del 2008. Che cosa faranno i milioni di persone, nella sola Europa, che non troveranno lavoro, per ragioni di età, di preparazione e competenze informatico-linguistiche, di altro, perché i modi di lavorare sono nel frattempo cambiati al punto da rendere quelle persone inadeguate? Usufruiranno del salario sociale o del reddito di cittadinanza? Può bastare? Se per vita e dignità intendiamo lo sfamarsi, sì, se invece intendiamo il guadagnarsi da vivere, no.
E allora, perché non pensare ad attività che l’innovazione sta oramai da decenni spegnendo: all’Expo dicono, ammirati del padiglione del Giappone, che presto avremo tutto automatizzato, basterà “parlare con la casa”, per avere ogni servizio; la domotica e le tecnologie più sofisticate la faranno da padroni. Ricordo che solo due decenni e mezzo fa nei “paesi socialisti”, se andavi in un ristorante c’era abbondanza di camerieri, c’era la guardarobiera, i parcheggi e i caselli autostradali erano popolati da molti addetti, i musei pieni di anziani vigilanti e cortesi. Ecco dove tornare, non nei paesi socialisti, come si diceva, ma dentro un concetto-valore del lavoro, che ha a che fare con l’impegno che uno, un uomo, una donna, in ogni caso, anche nei momenti più difficili, può dare, regalando significato alla propria vita.
…
E così, ciò ricordando, evoco questo titolo di echi carducciani e liceali. A me il corrucciato barbuto poeta e professore piaceva, fin da ragazzo liceale, appunto. “Pianto antico”, “San Martino”, “Traversando la maremma toscana”, “Davanti a San Guido”, son pezzi che avevo imparato a memoria, come si usava allora, e come si dovrebbe fare ancora oggi. Così come i foscoliani Sepolcri e gli idilli maggiori del conte Giacomo da Recanati. Non mancava (e non manca) neppure qualche robusta terzina dantesca… E ancora li so, quasi tutti, basterebbe una rispolverata. La bellezza di quei versi si accompagnava all’esercizio mnemotecnico che ha sviluppato neuroni e sinapsi nella mia giovane testa, e ringrazio quel maestro e quei professori che mi hanno fatto amare quei poeti, come ho amato il Pascoli, sentimentale e socialista, musicante sublime di parole.
A questa età che ormai volge al sereno cogliere di ultime lente forti sensazioni e potenze scrivo…sed scripta mea, amorevolmente nel tempo che passa, senza fretta, senza iattanza, senza la fregola di farsi leggere. Anzi, so che mi leggono in pochi, certamente quelli che comprano i miei libri ma solo una parte di coloro che li ricevono in dono, persone che ogni volta mi ripropongo di lasciar perdere, ma poi mi dimentico del buon proposito, e gli faccio l’ennesimo dono librario non molto desiderato, o forse, in qualche caso, addirittura -in fondo- subìto. Forse. Oppure non ci capisco molto. Forse. Ovvero c’è un combattimento interiore che spinge qualcuno a rifiutarmi, per ragioni un poco ascose allo stesso, o inconfessabili. Bene, non importa,
Perché vi sono linee, intrecci e contraddizioni nell’ordine caotico, ossimoro necessario per comprendere ciò che si cela sull’orlo del caos, (cf A. F. De Toni), non del “caso”, anagramma interessante, vero? Ogni cosa si cela in parte e in parte di manifesta: vi è un’epifania continua della realtà che s’invera nella sua manifestazione, quasi senza che si debba definirla.
Vi sono linee tracciate o rinvenibili nel percorso quotidiano, in parte decidibili e in parte no; vi sono intrecci di cui si è protagonisti molto parziali, gli incontri che si fanno, i colleghi che si hanno, gli affetti che si scelgono o da cui siamo scelti; le contraddizioni che si incontrano e si riconoscono, ma non si possono evitare… questo è il procedere dell’esistenza e delle parole con le quali si chiamano le cose. Le parole sono la stessa cosa dei pensieri e degli oggetti che descriviamo, anche se qualcuno non è d’accordo. Dobbiamo essere rigorosi con le parole e la loro densità, non si scherza con le parole.
E invece di questi tempi molti scherzano con le parole, non riconoscendo loro la vita che hanno nell’essere pensate e dette e scritte. Quanti insultatori della parola, quanto pochi uditori della parola (cf. K. Rahner)! Per parte mia mi sento proprio, con Rahner, un uditore della parola
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